giovedì 20 maggio 2010

3) La persona che trovò un libro per strada - Ebook ita

al nostro amico Fernando
“Hai appena trovato questo piccolo libro per strada. Stai leggendo le prime righe per capire se merita un po’ di attenzione. Forse lo cestinerai appena girato l’angolo. Sarebbe un peccato. Perché se decidi di portarlo con te, scoprirai che non è un caso. Nel senso che volevamo fossi proprio tu a trovarlo. Ragiona un attimo. Pensa al tuo passato più recente. C’è una persona che sino a ieri ha fatto parte della tua vita. Forse per te non è stata importante. Ma tu, per lei, sì. Per lei, le tue parole avevano un peso. Non puoi neanche immaginare quale. In breve: ti stimava. Poi cos’è accaduto? Rifletti. Che cosa è accaduto l’ultima volta che vi siete incontrati? Ecco, ora inizi a capire. E se quella persona non ti avesse mai perdonato? Se non avesse dimenticato la frase con cui le hai spaccato la testa? D’altronde lo sapevi che era vendicativa. Prima o poi te l’avrebbe fatta pagare. Bene. Quella persona ha deciso che la sua vendetta inizia oggi. Per questo ti ha seguito. Si è nascosta tra le persone in attesa del momento giusto. A dirti tutta la verità, è esattamente una settimana che ti pedina. Voleva verificare che tu non avessi modificato le abitudini. Vuoi ridere? Per paura che tu la riconoscessi, si è infilata pure una parrucca. C’è stato un momento, oggi, che eravate così vicini da potervi sfiorare. Pensi che sia uno scherzo? No. Non lo è.
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Ripeto: la sua vendetta inizia oggi. Come ti ho detto, si è nascosta tra le persone in attesa del momento giusto. Quando è arrivato, ti ha preceduto di pochi passi e ha lasciato cadere questo libro. Sapeva esattamente dove farlo. E sai perché ha scelto proprio quel punto? Per essere sicura che tu lo raccogliessi. Voleva vedere con i propri occhi l’inizio della vendetta. Non poteva tornare a casa con il dubbio. Ora è tranquilla. Lontana da te. Eppure, se per un attimo immaginassi il suo volto, ci sarebbe un sorriso. Sorride perché sa che tu hai due alternative: leggere sino in fondo queste pagine oppure no. In ogni caso, la sua vendetta sarebbe compiuta. Se finirai di leggere, scoprirai il meccanismo della sua trappola. Se non lo finirai, sarebbe lo stesso. Anzi. Sarebbe meglio. Perché sapere che tu hai deciso di non sapere aumenta la sua soddisfazione. E’ consapevole che il tarlo della curiosità e della paura ti roderà sino all’osso. Sì. Paura. Quella che hai in mano non è l’unica copia. C’è una precisa lista di persone che oggi e domani mattina riceveranno il libro. Loro saranno gli strumenti più affilati. Alcuni li conosci. Ti dirò di più. Alcuni li hai presentati proprio tu a quella persona che adesso sorride e guarda le lancette. Dovranno trascorrere 72 ore.
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Allora, ti sarà tutto chiaro. Perché non c’è vendetta senza ricatto. Ricordalo.”
– Ecco. Questo dovrebbe essere l’inizio del libro! – esclamò il dirigente del DarkSide, una cellula clandestina e illegale di agenti radiati dai Servizi, chiudendo, con un colpo secco, la cartella rossa dove aveva riposto il foglio appena letto. Come in un film senza fantasia, un lampo illuminò per un istante la sala. Siamo nella “Churchill Room”, al quinto piano del Ark Royal Hotel, lungo la tangenziale est di Milano. Intorno a un tavolo di mogano siedono dodici persone. Le pareti sono interamente rivestite di radica e tutto l’arredamento è in stile navale. Persino i paralumi hanno la forma di due piccole vele affiancate. L’ampia vetrata rettangolare si apre su un cielo grigio e acquoso. Sembra veramente di essere sospesi in mezzo al mare. La sala è stata prenotata dal DarkSide attraverso una società fittizia. Per il personale dell’albergo, quella è una tipica riunione vendite di una ditta dell’hinterland.
– Dunque signori! – riprese il dirigente – prima di sottoporre alla vostra attenzione i particolari dell’operazione AM, ritengo utile ricordare gli obiettivi del SISDE, nostro nemico, così come appaiono sul sito pubblico www.serviziinformazionesicurezza.gov.it. Leggo testualmente: “Compito dei Servizi di informa4
zione e di sicurezza è quello di operare, sul piano informativo, in difesa preventiva della sicurezza interna ed esterna dello Stato. Nel perseguire questo obiettivo, i Servizi debbono contrastare varie forme di minaccia, che sono costituite non solo dallo spionaggio tradizionale — quello che si dedica alla ricerca di notizie segrete di ordine militare, politico ed economico — ma anche da altre più sofisticate e subdole forme di offesa: la disinformazione, il sabotaggio, l’ingerenza straniera in ambito politico, economico e culturale. Per il raggiungimento degli obiettivi, i Servizi di sicurezza devono assumere un doppio atteggiamento operativo:
• acquisire quante più informazioni sulle possibili minacce; • impedire che si acquisiscano informazioni sul proprio conto. L’atteggiamento “offensivo” consiste tra l’altro nel costituire una rete di informatori negli ambienti di interesse, in quegli ambienti, cioè, nei quali sussistano elementi che lascino ipotizzare insidie per la sicurezza. In generale, lo scopo è quello di ottenere informazioni che il detentore non prevede vengano intercettate. L’efficacia è strettamente legata alla segretezza: l’utilità dell’informazione dipende dal fatto che l’avversario non si accorga della compromissione. In caso contrario, esso può agire per sminuire il valore o, comunque, prendere le contromisure del caso. 5
Per questo è spesso necessario creare delle fonti alternative, per impedire che l’avversario scopra, dall’uso di una data informazione, chi possa averla fornita. Gli informatori, in generale, a prescindere dalle ragioni per le quali si prestano a fornire notizie — e spesso agiscono per motivi di particolare valore morale – hanno assoluto bisogno di segretezza sulla loro identità e sul compito che svolgono. Grazie a loro si possono scoprire le trame occulte che si tessono nell’ambiente in cui si trovano inseriti: possono perciò spesso correre gravi rischi. In alcuni ambienti, come quelli mafiosi, la divulgazione del nome di un confidente può precedere di poche ore l’esecuzione di una condanna a morte. Se si vuol rendere sterile un servizio, non si deve far altro che rendere sterili le sue fonti confidenziali.”
Terminata la lettura, il dirigente gettò una rapida occhiata a tutti i presenti. Un tuono lontano fece vibrare leggermente la vetrata.
– L’operazione AM – riprese – nasce come laboratorio di prova. La dirigenza del nostro gruppo ha scelto la sezione di Milano del DarkSide per realizzarla. L’obiettivo è triplice: creare uno strumento nuovo per comunicare con i nostri infiltrati. Lanciare messaggi a quanti orbitano intorno ai Servizi, soprattutto il mondo dei media. E diffondere sconcerto e insicurezza tra la popolazione di Milano. Su quest’ultimo punto, una precisazione, per quelli tra voi che possono ancora nutrire qualche scrupolo. Siamo in guerra. 6
Una guerra silenziosa, ma cruenta quanto quella fatta con le bombe. Cellule dormienti di terroristi islamici sono pronte a colpirci al primo segnale. Dobbiamo ottenere il consenso della popolazione. Come ai tempi delle Brigate Rosse, il nostro compito è quello di attuare una serie di attentati, scaricandone la colpa sull’avversario. In questo caso, non useremo azioni violente, ma piccole incursioni di guerriglia psicologica. La gente comune deve percepire la paura. Quando è in metropolitana. In coda al supermercato. Dentro a un cinema. Sempre. Ovunque. La paura è il cemento della democrazia. Il progetto AM vuole produrre una piccola scossa tellurica per permettere al DarkSide di soccorrere i feriti. In concreto: dobbiamo stampare e distribuire in modo non convenzionale un libro che conterrà una serie di messaggi in codice. Per la precisione: cinque. L’autore si chiamerà Anonimo Milanese, da qui il nome di tutta l’operazione. Il materiale ci è già stato fornito da Roma. Con una raccomandazione fondamentale: l’iter di produzione del libro, assemblaggio del testo, stampa e distribuzione, deve essere eseguito da una persona completamente estranea al DarkSide. Una persona che non saprà mai né l’identità del committente né i reali obiettivi. In una parola: non dovrà mai sospettare l’esistenza dell’operazione AM. Uno strumento inconsapevole nelle nostre mani. Nessuno
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dei fornitori coinvolti nella stampa del libro dovrà mai risalire all’esistenza del DarkSide –
– E come è possibile? – interruppe uno dei presenti. – Da circa tre anni – continuò il dirigente senza guar-dare chi aveva posto la domanda – abbiamo focalizzato la nostra attenzione su dieci persone: cinque uomini e cinque donne. Li chiamiamo “i ratti”. Età: 20/30 anni. Da tre anni controlliamo ogni piega della loro vita: telefonate, abitudini, vacanze, relazioni sentimentali, lavoro, spazzatura… Qui ho i dossier digitali di ciascuno. Il compitino di oggi è quello di selezionare il nostro candidato ideale. – La sala venne oscurata e su uno schermo al plasma iniziarono a girare fotografie e filmati dei “ratti”. A ogni presentazione, il dirigente elencava le caratteristiche salienti. Età, professione, stile di vita, inclinazioni sessuali e politiche. Al termine, il dirigente tirò la tenda, lasciando scoperta l’ampia vetrata. Fuori continuava a piovere. Iniziò quindi il confronto per la selezione del migliore candidato. Dopo circa due ore, la scelta si concentrava su due giovani maschi. – Per me la soluzione è già pronta – disse uno dei pre-senti, picchiettando l’estremità di una penna sul tavolo. – Ha bisogno di un invito formale? – gli chiese il dirigente senza nascondere la stizza. – Mi scusi – disse l’interlocutore, raddrizzandosi sulla sedia – dicevo che per me la soluzione è già 8
pronta, perché il primo “ratto” è sieropositivo da circa due anni, anche se ancora non lo sa. Ho paura che la sua malattia rappresenti un limite operativo e possa quindi compromettere in qualche modo l’intera operazione. E’ un punto interrogativo che ci porteremmo addosso tutto il tempo. Un rischio evitabile. Per esclusione, vi invito a riflettere sul secondo candidato –.
– Voi cosa ne pensate? – chiese il dirigente. Dopo un attimo di silenzio, uno dei presenti, con voce calma e bassa, disse – approvo –. – Approvo – fece eco il vicino. E così tutti gli altri. AM aveva finalmente un nome e un volto. 9
PRIMO MESSAGGIO
E se Am fossi tu? Tu che hai trovato il libro per strada? Se fosse tutto vero? Quello che hai tra le mani è il compimento del progetto. Ricorda: il nostro obiettivo è diffondere insicurezza. Tu sei uno dei “ratti”. Non lo sapevi. Ora è tempo di verità. Da tre anni seguiamo ogni tuo passo. Conosciamo particolari della tua vita che non immagini. Ogni parola che leggi è stata soppesata con attenzione dal DarkSide. Al suo interno, infatti, esiste una piccola divisione dedicata alla stesura di testi anonimi. Sapevi che una lettera anonima può rovinare un’esistenza? Ebbene, ora ti insegno il trucco. E’ semplice ed efficace. Lo conoscono solo gli appartenenti al Servizio. E nemmeno tutti. Figurati che alcuni infiltrati lo ignorano. In breve: tu odi una persona. La odi come odia te chi ti ha fatto raccogliere questo libro. La persona che nascosta tra la folla ha atteso il momento giusto.
Per procurare la morte civile e morale al tuo nemico, seguilo.
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Annota sopra un taccuino i cognomi sul citofono della sua abitazione. Osserva dove compra le sigarette, il pane, il giornale… Qual è la sua farmacia e il supermercato per la spesa. Cerca di scoprire l’identità dei colleghi. Se non puoi, segna almeno i cognomi posti sul citofono del palazzo in cui lavora. Spedisci a tutti loro una lettera anonima. Ora ti spiego come fare. Scrivere un testo anonimo non è un gioco da “Totò e Peppino”.
Prima regola: conquista subito la fiducia del lettore. Per ottenerla, inizia con una frase che abbassi subito le difese psicologiche. Tipo: “Gentile Sig. Rossi, è la prima volta nella mia vita che scrivo una lettera anonima. Mai avrei immaginato di farlo, e per questo mi scuso in anticipo.” Questo è un ottimo incipit. Perché l’autore ammette la bassezza del gesto compiuto ma, al contempo, traspare il senso di colpa – “mai avrei immaginato” – e l’atto di umiltà verso il destinatario – “e per questo mi scuso” – che si ritrova automaticamente in una posizione di superiorità. Adesso, ce l’hai in pugno. Hai abbassato le sue difese e innalzato il suo ego.
Seconda regola: stuzzica la curiosità.
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Per centrare l’obiettivo, prosegui in questo modo: “la gravità delle informazioni in mio possesso e la mia coscienza di padre mi obbligano a parlare”. Fantastico! Vero? Hai detto poco. Quasi niente. Eppure, adesso, l’aspettativa è enorme. Prova a rileggere. Con calma. “La gravità delle informazioni in mio possesso e la mia coscienza di padre mi obbligano a parlare”. Hai creato attesa. La frase ambigua promette torbidi sviluppi.
Terza regola: scegli l’accusa più infamante. Per esempio, la pedofilia. Ecco la formula: “faccia attenzione al Sig. X (qui scrivi il nome del tuo nemico) perché è stato condannato per abusi sessuali contro il figlio. E in questo stabile, vivono tanti bambini. E’ per loro che mi sono deciso ad uscire allo scoperto”.
Quarta regola: sii credibile. A tal proposito, inventa il numero di protocollo del processo e la sua data. Senti come suona vero: “Sì, il Sig. X è stato condannato il 12/09/1987 presso il tribunale di Milano (fascicolo N. 178235/BC–NVZ)”.
Adesso il tuo nemico è morto. La conseguenza più beffarda di questo trucco è che non importa se il destinatario della lettera ci creda
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oppure no. L’importante è aver gettato il seme del dubbio. Il tuo nemico è spacciato. Ovunque vada. Nessuno lo guarda come prima. Per qualche tempo, il tuo nemico non saprà perché le persone che lo circondano hanno cambiato atteggiamento. Chi potrà mai confidargli il contenuto di una lettera anonima che lo accusa di pedofilia? Eppure, lentamente, le voci iniziano a girare. Gli inquilini dello stabile in cui vive, soprattutto quelli con figli adolescenti, si scambiano confidenze a voce bassa nel buio dell’androne. I colleghi, padri di famiglia o madri premurose, rileggono la lettera durante la pausa del pranzo. I sospetti, gli sguardi imbarazzati, o maligni, lo seguono per le scale. Lungo la strada. In ufficio. Dentro casa. Alla fine, il tuo nemico avrà solo due possibilità: cambiare città o il suicidio.
Rifletti. Chi scrive le parole che hai appena letto rivela una conoscenza diretta del sistema. Forse fa parte della divisione DarkSide che compone testi anonimi. E’ stato incaricato di divulgare un libro in codice con
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un triplice obiettivo. Comunicare con gli infiltrati. Lanciare messaggi a quanti orbitano intorno ai Servizi, soprattutto i media. Diffondere confusione e insicurezza. Sì. Confusione e insicurezza. Quindi, paura. E la paura è il cemento della democrazia.
C’è un’altra possibilità. Chi ha scritto il libro è un ex agente. Un rinnegato. Un cane sciolto. Un uomo, o una donna, che ha subìto un torto e pretende giustizia. Ma la giustizia che cerca non si trova nei tribunali. Deve procurarsela con le proprie forze. La giustizia privata si chiama vendetta. La sua vendetta è quella di sputtanare il DarkSide, così come il DarkSide ha sputtanato lui, o lei. Questo libro è un primo segnale. Chi ha orecchie per intendere, intenda. I bersagli del cane sciolto sanno che non scherza. Comprendono alla perfezione il messaggio in codice. Ciò che a te sembra bianco, è nero. E questo lo sanno. Tu non comprendi. Ma loro sì. Sono consapevoli delle conseguenze. Con questo primo messaggio, sono stati avvertiti. Occhio per occhio. Dente per dente.
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Solo una persona addestrata poteva stampare clandestinamente un libro e distribuirlo in modo non convenzionale.
E se fosse invece opera di un servizio segreto straniero? Anche questo un segnale. Un avvertimento. Su tale ipotesi non è necessario soffermarsi oltre. Cane sciolto e servizio straniero si equivalgono.
Ma esiste un’ultima possibilità. Più semplice. Reale. Anonimo Milanese non è altro che uno scrittore fallito. Ha deciso di buttare gli ultimi soldi nella stampa di questo libro. Un disperato tentativo per far parlare di sé. Ha gettato per terra le copie come bottiglie nel mare. Forse qualcuno apprezzerà il meccanismo della sua operazione. Un piano di marketing concepito per lanciare sul mercato un nuovo autore. Ecco: dietro a tutto questo non c’è uno scrittore, ma una casa editrice spregiudicata che vuole emergere sulle pagine dei giornali. Anonimo Milanese è lo pseudonimo dietro al quale si nasconde un gruppo editoriale.
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Il CONTATTO
La mansarda si trovava a Quinto Sole, una piccola frazione a sud di Milano. Tre case e qualche osteria. Am si alzò dal letto verso le 7. Fuori continuava a piovere. Una pioggia polverosa. Quasi sussurata. AM aveva 27 anni ed era iscritto, fuori corso, alla facoltà di Lettere Classiche presso l’Università Statale. Quel giorno avrebbe dovuto affrontare il suo ultimo esame: Storia della lingua eleusina. Era andato a dormire molto tardi per ripassare un libro particolarmente ostico. Mentre si preparava il caffè in un angolo cottura, ricavato da un antico ripostiglio, continuavano a balenargli in testa radici indoeuropee, sostantivi greci, implicazioni semantiche che si perdevano nella notte dei tempi. Ad ogni pensiero, seguiva l’ansia di collocarlo con esattezza nel piano di studio. Il professore avrebbe potuto chiedergli proprio quello. Oppure il nesso basco–caucasico, scoperto da un tal professor Trombetta. Che buffo cognome. Se non fosse stato così teso, AM avrebbe potuto anche sorriderne. Il programma della giornata era semplice: dare l’esame e poi rilassarsi. Magari da Ricordi. Il mega store in C.so Vittorio Emanuele. Am adorava gironzolare tra gli scaffali e vedere le copertine dei cd. Soprattutto quelli degli anni ’70. In pochi passi si concentrava la
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musica che aveva segnato la storia. E poi sarebbe entrato in una libreria. Aveva voglia di leggere qualcosa per pura curiosità. Senza l’incubo di ricordare ogni particolare per ottenere una promozione. Che tristezza i libri letti per dovere! Avrebbe concluso la giornata in un pub con Francesca. La sua fidanzata ormai da quattro anni. Caspita! Quattro anni! Il suo record personale. Ecco, il pensiero di Francesca lo tranquillizzò per qualche minuto. Prima che l’ansia lo facesse di nuovo prigioniero. Per un comprensibile masochismo, amava il dolore, quasi fisico, che precedeva ogni esame. Gli permetteva di non pensare a sua madre, morta da oltre quattro anni in un incidente stradale. Suo padre si era consolato presto. Dopo sei mesi dal funerale, si era già trovato un’altra compagna di vita. Probabilmente stavano insieme prima della tragedia. AM era giunto a questa amara conclusione spiando una telefonata. Nel giro di qualche settimana, la sua vita cambiò in modo radicale. Si ritrovò solo in una mansarda sulle labbra della periferia. Gli unici contatti con suo padre, nel frattempo trasferitosi a Roma, erano la telefonata del mercoledì e il bonifico di 600 euro a fine mese. Nell’attesa del tram che lo avrebbe portato all’università, AM pensava al modo di arrotondare le entrate anche questa volta. Servizio ai tavoli nell’osteria sotto casa. Traduzioni in inglese per una rivista di settore. Ripetizioni di greco per il figlio scemo della vicina. In
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effetti, con 600 euro, non c’era da stare allegri. La pioggia continuava a cadere. In lontananza, il fumo grigio della fabbrica di materie plastiche. Lungo la banchina, impiegati e studenti nervosi scrutavano l’interno delle proprie cartelle. Una volta sul tram, AM si accomodò vicino all’uscita. Appoggiò la fronte contro il finestrino, concentrando lo sguardo sulle automobili che passavano. Dopo qualche minuto, si sedette accanto a lui una persona vestita di nero. AM non lo vide mai negli occhi. Percepiva l’odore di un gradevole dopo barba. Si sentiva osservato, ma non ebbe la forza di girare lo sguardo. Chiuse gli occhi e immaginò di essere in un altro mondo. Lungo la spiaggia di un pianeta ancora sconosciuto. I suoi passi lasciavano orme leggere nella sabbia. Era l’ora del tramonto. Nessuna forma di vita nel cielo o sopra la terra. Solo AM. Sottile profilo sul filo del nulla. Con una curva affilata, il tram si fermò in Piazza Fontana. L’uomo vestito di nero era scomparso. Una volta in strada, AM si accese una sigaretta, sistemando lo zaino dietro la schiena. Comprò una copia di Repubblica nell’edicola davanti alla fermata. I rumori del centro lo assalirono con violenza. Dopo un attimo di esitazione, si diresse verso via Bergamini che portava dritto alla “Statale”. Come abitudine, prima di affrontare un esame, entrò nel bar d’angolo per bere un cappuccino. Dentro al
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locale, si respirava un delizioso profumo di arance e cacao. AM andò a sedersi al tavolino in fondo alla sala. Vicino all’ampia vetrata che dava sulla strada.
– Mario, mi porti un cappuccio? – chiese al cameriere prima di aprire il giornale davanti a sé. – Agli ordini! – rispose quello dietro al bancone, con saluto militare. AM lesse la stessa merda del giorno precedente. Autobomba a Baghdad. Elezioni anticipate. La solita madre che uccide il figlio. Il solito figlio che uccide il padre… – Ecco il tuo cappuccio e un biglietto – disse Mario, appoggiando la tazza e una piccola busta sopra il tavolino. – Che biglietto? – – Me lo ha portato Ràvas, il vùcumprà che staziona sempre qui davanti. Mi ha detto che è per te. – AM si guardò intorno perplesso, mentre il cameriere era già tornato alla macchina del caffè. Aprì la busta, dopo averla osservata in contro–luce, e iniziò a leggere un testo scritto a macchina. – Solo un vùcumprà può scrivere ancora a macchina nel 2006 – pensò con un vago senso di irritazione. Si accorse subito, però, che Ràvas non era l’autore del messaggio. Ma solo il postino. “ Ti starai chiedendo – era scritto – perché non abbiamo voluto consegnarti direttamente questa busta. Il motivo è semplice: noi non ci dovremo mai incontrare. Seguiranno altri contatti al momento opportuno. 19
Oggi ti assegniamo un compito. Terminato l’esame, recati in via Lanterna al numero 32. Troverai un citofono con una piccola pulsantiera. Per la precisione ci sono tre nominativi un po’ particolari: fuoco, terra, vento. Premi in sequenza: terra, fuoco, vento, vento, fuoco, terra. E’ un numero telefonico. Risponderà una voce che ti fornirà le indicazioni per muoverti. In questo momento ti stai chiedendo due cose. E’ uno scherzo? E perché dovresti seguire il compito assegnato? No. Non è uno scherzo. E se farai ciò che ti chiediamo, effettueremo un bonifico a tuo favore di 250 mila euro entro domani. Altri 250 mila euro al termine del lavoro. Non devi né uccidere né rubare né commettere reati. Solo ubbidire. Per sciogliere il tuo scetticismo, desideriamo fornirti un paio di prove della nostra serietà. Primo: ieri hai terminato il ripasso per il tuo esame alle 2 di notte. Hai navigato in Internet sino alle 2 e 45, visitando quattro siti: www.ansa.it; www.trenitalia.it; www.alleanzanazionale.it; www.atm–mi.it. Secondo: oggi, durante l’esame, il professore ti chiederà di analizzare la teoria di Trombetta. Il linguista che scoprì un nesso tra gli idiomi delle popolazioni nord–africane e quelle basche. Ma, a questo proposito, pensiamo che tu ne sappia più di noi. Vero? Ricorda: via Lanterna numero 32.” AM ripiegò il foglio, gettando ancora un’occhiata oltre la vetrata. Ràvas era proprio davanti a lui. Stava cercando di vendere un accendino a una ragazza bion
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da e carina che scuoteva la testa decisa. Quando lo raggiunse, la ragazza era già lontana.
– Senti un po’ – iniziò brusco – chi ti ha dato questo biglietto per me? – e gli sventolò davanti al naso la busta. – Un mio amico – rispose Ràvas con un sorriso bianchissimo, quasi accecante. – Che amico? Quale amico? – lo incalzò AM. Il suo volto era tirato. Il tono della voce alto. Ràvas si strinse nelle spalle – Uno del mio paese, – spiegò – vende collane in Piazza Fontana. Mi ha detto che un uomo gli ha dato la busta, raccomandando di darla a me. L’uomo ha detto che la consegna era qui al bar. A nome tuo. – – Com’era vestito quest’uomo? Di nero? – chiese AM, strattonando il vùcumprà. – Ma che ne so io? – piagnucolò – Io non ho fatto niente di male. Ci ha dato 10 euro. Io devo mangiare – AM rimase immobile sotto la pioggia ad osservare Ràvas che si allontanava gesticolando. – Allora, sei pronto? – AM si risvegliò dal torpore e guardò in faccia chi gli aveva fatto la domanda. Era Giorgio, un suo compagno di corso. All’improvviso, si ricordò dell’esame. Si incamminarono insieme verso l’ingresso dell’ateneo. E AM si propose di non pensare a quanto accaduto sino al termine dell’interrogazione. Una volta dentro, AM si isolò, con una scusa, nell’attesa di essere chiamato. 21
Si sedette nella fila più alta dell’emiciclo. Voleva osservare dall’alto l’aula. Quella posizione gli dava un vago senso di sicurezza. Quando il suo nome echeggiò nell’aria, scese con lentezza i gradini senza pensare a nulla, sedendosi, infine, davanti al professore. – Che cos’è l’Indoeuropeo? – AM accolse con sollievo la prima domanda. Gli offriva la possibilità di spaziare. Non era una domanda tecnica. Una di quelle trappole che ti mettono con le spalle al muro. Aveva la possibilità di muoversi tra filosofia e glottologia. Creare collegamenti semantici. Mischiare grammatica e intuizione. In una parola: improvvisare. Ma con consapevolezza e abilità. Mentre parlava, e il professore annuiva, si ricordò per un istante del messaggio al bar. Gli sembrava tutto assurdo. L’unica spiegazione era quella di uno scherzo. Sicuramente qualche amico. In definitiva, che cosa occorreva per conoscere l’ora in cui aveva terminato il ripasso? Bastava stare in macchina davanti a casa sua. Magari fumandosi una canna, e la radio sintonizzata su Lifegate. Quando la luce si spegneva, si guardava l’orologio e il gioco era fatto. Poteva essere Giorgio. Sì, chiamarlo “amico” era un po’ esagerato, ma negli ultimi mesi si erano frequentati molto. In più, Giorgio non poteva certo definirsi una persona normale. Era
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bello strano. E poi, guarda un po’ che coincidenza: Giorgio era subito lì, dopo la consegna del messaggio. Quasi volesse godersi lo spettacolo da vicino. E i siti visitati? Anche qui niente di miracoloso. Basta un trojan da quattro soldi, magari inviato con una banale e–mail, per entrare nel pc di chiunque e farsi i fatti suoi. Giorgio in questo genere di cose era proprio un mago. AM aveva deciso. Al termine dell’interrogazione lo avrebbe affrontato di petto. C’è un limite a tutto. Giorgio aveva esagerato.
– Allora? – chiese il professore AM lo guardò stupito. Solo in quel momento si accorse che gli aveva posto una domanda. Ma la sua mente era stata altrove negli ultimi secondi. – Mi scusi – sussurrò AM, sistemandosi meglio sulla sedia – può ripetere? – – Dicevo: mi parli della teoria di Trombetta e del nesso basco–caucasico – AM rimase perplesso. Senza parole. Poi, lentamente, iniziò a rispondere. Voleva solo terminare quell’agonia. Passare l’esame e fumarsi una sigaretta. Non intendeva certo importunare il professore con domande assurde. E in definitiva, che cosa poteva chiedergli? Più tardi, con calma, avrebbe cercato una risposta razionale a quanto accaduto. Terminato l’esame, AM si diresse verso uno dei chiostri interni. Mentre camminava, incrociò più volte lo sguardo degli altri studenti. 23
Ogni viso gli sembrava ostile e lontano. Si distese lungo un muretto sotto le arcate ad ogiva. La schiena appoggiata contro una delle colonne che ritmavano lo spazio. Rilesse il messaggio almeno una decina di volte, continuando a fumare. Infine, sistemata la busta nella tasca posteriore dei jeans, raggiunse l’uscita. Decise di trascorrere il resto della giornata come programmato. Avrebbe raggiunto via Lanterna. Ma non subito. D’altronde, nella lettera non era specificato alcun orario preciso. Voleva arrivarci con calma. All’inizio della sera. Confuso e perplesso, continuava a camminare per le vie del centro. Senza meta. Il trillo del suo cellulare lo risvegliò dal torpore.
– Ehi! Ma che fine hai fatto? – esclamò una voce frizzante al suo orecchio. – Ciao Francesca – rispose AM con tono dimesso. – Che entusiasmo! Devo dedurre che non l’hai passato? – – No. E’ andata bene. Senti, piuttosto.Questa sera non ce la faccio. Sono proprio stravolto. Vorrei andare a dormire presto – – Che ora hai fatto ‘sta notte? – chiese la ragazza con giocosa preoccupazione. – Le due – – Ma va tutto bene? – – Certo – la tranquillizzò AM, cercando di ritrovare la 24
solita voce.
– Va beh, – concluse Francesca – dimmi almeno quanto hai preso – – 30 e lode. Poi ti racconto. Scusami Francesca, ma sono troppo stanco. Sono sicuro che se continuiamo la conversazione, mi innervosisco e finisce che litighiamo. Ti chiamo domani mattina. Un bacio – e terminò la chiamata. Francesca rimase ad osservare il cellulare per qualche istante. Poi si strinse nelle spalle e continuò a mettersi lo smalto sulle unghie. Era abituata agli sbalzi d’umore di Am. Soprattutto quando la fine del mese si avvicinava e i soldi iniziavano a scarseggiare. In questi momenti, bisognava avere solo un po’ di pazienza. Già immaginava la telefonata dell’indomani, e le scuse del suo ragazzo per la fretta con cui aveva interrotto la comunicazione. Intanto, AM era arrivato in Corso Vittorio Emanuele. Davanti all’ingresso del megastore Ricordi. Quel pomeriggio era particolarmente affollato. Ragazzini pieni di piercing, e col cavallo dei pantaloni quasi alle caviglie, vociavano allegri ovunque. Nell’aria danzava una fragranza di pane lontana. AM raggiunse il piano seminterrato attraverso la scala mobile. Si aggirò poco convinto tra gli scaffali della musica caraibica. Dopo qualche minuto di attesa, davanti ai totem degli ultimi arrivi, si mise le cuffie per ascoltare qualche 25
pezzo. Non provava, però, le solite emozioni. Non riusciva a lasciarsi andare. Il messaggio continuava a martellargli la testa. Rimase in quel negozio per circa tre ore, cercando invano di scacciare un sot-tile senso di angoscia. Di nuovo per strada, gustò il freddo di quel pomeriggio quasi invernale, prima di entrare in una libreria. Era come se cercasse la soluzione della sua ansia nella copertina di un cd o nel titolo di un libro. Le persone intorno sembravano moltiplicarsi ad ogni secondo. AM sentiva la loro soffocante presenza. La loro invadenza fisica quasi lo penetrava. Gomiti nei fianchi. Spinte decise. Mani sulle spalle. Odore di sudore. Un recinto umano gli recludeva ogni uscita. Provò un forte senso di nausea e, per un minuto intero, rimase ad occhi chiusi abbracciando un libro per bambini. Una commessa stupita scambiò un sorriso di intesa con la collega del reparto vicino. Quando uscì, era ormai buio. Nelle strade, lucide di pioggia, gli ultimi passanti rincasavano frettolosi. AM raggiunse a piedi via Lanterna. Erano circa le 11 di sera quando arrivò davanti al numero civico 32. Proprio all’angolo con via Leviatan. Un palazzo scuro di fine ottocento dall’aspetto inquietante. Sotto una minuscola tettoia, alle cui estremità ghignavano teste di demoni in pietra, trovò il citofono
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descritto nel messaggio. Ad ognuno dei tre pulsanti corrispondeva una scritta: fuoco, vento e terra. Compose la sequenza che ormai conosceva a memoria. Con lentezza, premette “terra”, “fuoco”, “vento”, E ancora: “vento”, “fuoco”, “terra”. Nell’attesa di una risposta, trattenne il respiro. Il picchiettìo della pioggia si fece più insistente. Una macchina frusciò sull’asfalto bagnato alle sue spalle, scomparendo veloce. Il citofono emise brevi suoni metallici. Simili a quelli di un telefono, dopo aver digitato i numeri.
– Sei stato saggio ad accettare il nostro invito – disse infine una voce maschile. – Chi siete? – – Poco più avanti – continuò l’uomo senza preoccuparsi di rispondere – troverai una piccola piazza. Entra nella chiesa e inginocchiati al confessionale di destra. – AM rimase ancora davanti al citofono, ma il suo interlocutore aveva ormai riagganciato. Si diresse verso la piazza, camminando lentamente. Era solo lungo la via. Davanti alla chiesa, campeggiava un cartello giallo che indicava l’anno di costruzione e il nome dell’architetto: “M. Restri, 1902”. La facciata in mattoni rossi richiamava la severità dello stile proto–medievale. Guglie inaspettate si slanciavano agili al cielo. Intorno alle vetrate laterali, bianche cornici di gesso si arcuavano in forme arabeggianti. 27
Una strana miscela di romanico–gotico con influenze orientali. Nell’insieme era gradevole. Se ci si concentrava sui singoli dettagli, invece, il risultato era un inquietante smarrimento. Le piccole statue inserite nelle due nicchie intorno al portone, per esempio. AM notò con stupore un piccolo rigonfiamento sotto la veste dei santi. All’altezza dell’inguine. Lo scultore aveva accentuato volontariamente il dettaglio anatomico del pene. Ma un altro particolare attrasse la sua attenzione. Nella parete esterna dell’abside laterale, lungo lo zoccolo di granito a livello del terreno, era scolpita una lunga teoria di segni identici: il numero 6 era ripetuto per tutto il perimetro della chiesa. La sua base poggiava sopra la sequenza della Bestia. AM salì la breve scalinata che portava all’ingresso. Spinse con delicatezza il portone ed entrò nella chiesa. Solo le fiammelle dei ceri votivi illuminavano l’interno. Al suo passaggio, tremolarono fragili, e i volti delle statue assunsero, per il riflesso, atteggiamenti innaturali. Alle pareti brulicavano ombre misteriose. AM aveva ormai percorso quasi tutta la navata destra verso il confessionale. I suoi passi rimbombavano nel tempio come tocchi di un pendolo impaurito. Una volta inginocchiato, rimase immobile nel silenzio più assoluto. Dopo qualche secondo, si aprì la feritoia davanti al suo viso.
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Benché si sforzasse, non riusciva a intravedere alcun particolare attraverso i minuscoli fori di metallo.
– Come già detto – sussurrò improvvisa una voce – sei stato saggio ad accettare il nostro invito – – Chi siete? – chiese subito AM, cercando invano di intuire le fattezze dell’interlocutore. – Prima regola: non fare domande – rispose la voce con il timbro dell’assassino nei film di paura. Trascorsero alcuni secondi, prima che la voce continuasse – Vogliamo affidarti un compito. Ed è per questo che sei qui. – – E se io non accettassi? – interruppe AM più per sfida che per reale convinzione. – In tal caso, perderesti la possibilità di incassare 500 mila euro. Sarebbe davvero stupido da parte tua – – Che cosa dovrei fare? – – Questo è il primo di quattro contatti – spiegò la voce – ogni volta ti verrà consegnato un plico con materia-le cartaceo. Il tuo compito è quello di assemblarlo in un libro – – E poi? – – Dovrai scegliere i fornitori e seguire tutto l’iter di lavorazione sino alla stampa e oltre – – Cosa vuol dire “oltre”? – – Vuol dire che dovrai anche distribuirlo. Il suo titolo sarà: “La persona che trovò un libro per strada”. Una volta stampate 666 copie, le abbandonerai per terra lungo le vie di Milano che noi ti indicheremo al momento più opportuno. – – Chi mi dice che non sia tutto uno scherzo? – 29
– Domani controlla il tuo conto corrente. Noterai una piccola variazione rispetto al solito. I costi della pubblicazione non dovrebbero superare i 3 mila euro e sono compresi nella cifra che domani vedrai. E’ un anticipo sul lavoro. Esattamente la metà – – Ma se io… – – Basta! – lo zittì la voce – Preoccupati di agire in modo discreto. Ricorda: ad ogni contatto riceverai i testi da pubblicare. Poni particolare attenzione ai fogli che portano il titolo “messaggio”. Essi rappresentano il cuore della nostra comunicazione. Ultima regola: nessuno, in alcun modo, dovrà mai conoscere l’esistenza del nostro rapporto. – Con un balzò improvviso, AM lasciò l’inginocchiatoio, spalancando la tendina in velluto rosso del confessionale. L’interno era vuoto. Sulla mensola di legno, accanto al sedile solitamente occupato dal prete, era fissato un microfono e una web cam. – Credi davvero che siamo così ingenui? – lo rimproverò la voce con un timbro da brivido, – hai appena compiuto un gesto molto stupido. Ti consigliamo di contenere, per il futuro, la tua impulsività. Ora vattene. Prima, però, controlla l’inginocchiatoio. – AM rimase immobile per qualche istante davanti al confessionale vuoto. In quel momento, il suo inerlocutore poteva trovarsi ovunque. Anche in un altro continente. Infine, sollevò l’imbottitura dell’inginocchiatoio e, dal suo interno, estrasse una busta blù. Un silenzio profondo avvolse di nuovo il tempio. AM 30
si diresse verso l’uscita con il plico sotto l’ascella. Una volta in strada, alzò per qualche secondo il viso verso la pioggia. Solo e confuso, si incamminò nella notte alla ricerca di un tram. Erano ormai le due quando salì sull’ultima corsa per Quinto Sole. A bordo c’erano tre persone. Un travestito, un marocchino e un vecchio dallo sguardo perso. AM si accomodò nel fondo, appoggiando la fronte contro il finestrino. Fuori continuava a piovere. Davanti ai suoi occhi, sfilavano palazzi di periferia e luci lontane. Sembrava di osservare la costa dal mare. AM si ricordò, allora, di una breve crociera in barca a vela con i suoi genitori nelle Cicladi. Avrà avuto 6 o 7 anni. Suo padre era in grado di timonare da solo. Regatava sin da piccolo e possedeva la patente nautica da diporto. Al tramonto, gettavano l’ancora in qualche deliziosa insenatura e raggiungevano la spiaggia con il canotto. Mentre sua madre stendeva la tovaglia sulla sabbia e disponeva il cibo, lui e suo padre andavano a nuotare. Perché avevano fatto solo quella breve crociera? Perché non possedeva molti altri ricordi della famiglia riunita? Forse i problemi tra i suoi genitori erano sorti prima di quanto pensasse. A quell’estate ne seguirono altre trascorse solo con sua madre. AM non aveva mai pensato a lei come a una donna
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che soffre. Chissà quante volte avrebbe voluto parlargli. Raccontare di un uomo freddo e distante. Forse aspettava che AM crescesse. Arrivato quel momento, lei era morta. E’ strano come due vite collegate, quella di una madre e di un figlio, possano viaggiare con ritmi così diversi. Su quel tram, per la prima volta dalla sua morte, AM pianse. Il travestito lo guardò con un sorriso per tornare poi a chiudere gli occhi. Tra le lacrime, AM iniziò a farsi molte domande. Non gli importava di trovare una risposta. Il solo fatto di porsele lo faceva sentire meglio. Chi erano? Come avevano fatto ad arrivare a lui? Conoscevano il numero del suo conto corrente. Quando spegneva la luce e quali siti visitava. Da quanto lo spiavano? E il professore era un complice? Quando ritrovò un po’ di lucidità, prese la busta tra le mani ed estrasse a caso un foglio che portava come titolo “Messaggio”.
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SECONDO MESSAGGIO
Milano. Via Lanterna. Numero civico 32. La piccola tettoia esiste. Accanto ai tre pulsanti, ci sono tre etichette: fuoco, vento, terra. Non ci credi? Prova ad andare. Verifica con i tuoi stessi occhi. La piazza si chiama S. Notturno. La chiesa è il santuario di Metul. Architetto: M. Restri. Anno di costruzione: 1902. Certo, il sospetto gonfiore in zona inguinale è uno scherzo. Ma il 31 ottobre 2005, al suo confessionale, si è svolto un incontro interessante. Diciamo francese, quasi “provenzale”. Vero polizia? Vero Digos? Quando arrivò la telefonata anonima, che avrebbe permesso l’arresto del latitante, il Sig. Rossi (tu che leggi non capisci, ma il diretto interessato sì), non mosse un dito. Nella realtà, nessuno vuole indagare perché “tiene famiglia” o “alla famiglia”. Chi è preposto alla nostra sicurezza ride. Quando esplode un ordigno, ancor prima di conoscere il numero dei morti, fatti una domanda: cui prodest? La risposta è quasi sempre la stessa: giova allo Stato. In Italia non si muove foglia che la CIA non voglia. Nei momenti di crisi, quando la popolazione inizia a brontolare a voce troppo alta, il rischio è quello di per
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dere consenso. Nelle società plastificate, dove la democrazia è un abbaglio, il consenso della gente è l’olio del motore. Già nel ’50, Aldous Huxley avvertiva nei suoi saggi di sociologia: la dittatura del futuro non avrà più bisogno di megafoni. Nessun Hitler indemoniato ad arringare folle. Niente parate o raduni di Norimberga. Nel futuro, cioè adesso, la propaganda si è evoluta. Non urla. Non tortura negli scantinati come l’Ovra e il Kgb. C’è un filo rosso che collega Ezov, Laurenti Beria e l’odierno Putin. Esistono strumenti più affilati di persuasione. I primi esperimenti con i messaggi subliminali si sono svolti alla fine degli anni quaranta nei cinema americani. Esiste una regia globale e occulta che decide quali film proiettare, quali libri esporre sugli scaffali della città. Non solo. Sceglie i registi, li sovvenziona. Così anche gli scrittori. I musicisti. Le star della musica che riempiono gli stadi. Apparentemente artisti “contro”. Contro il sistema. Contro la politica. Ricorda: per sembrare vera, la falsa democrazia ha bisogno che qualcuno canti fuori dal coro. In tal modo può dire: “vedete, se ci fosse la dittatura, tutto ciò non potrebbe accadere”. L’economia sociale che la sinistra tentò di esportare nel mondo, ora gli si è ritorta contro. I no global sono comunisti. Non è buffo? Per comprendere la realtà, pensa sempre all’incontrario: chi vince perde. Chi perde vince. Chi mette le
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bombe è la stessa “persona” che piange e assicura giustizia. Piazza Fontana. Italicus. Stazione di Bologna. Cui prodest? O con noi o con le BR. E il popolo saggio, impaurito dagli attentati, si stringe al petto di mammastato. Oggi siamo al bivio. E loro lo sanno. Alcuni cittadini iniziano a sospettare. Pensano all’incontrario. Il sommesso brontolìo diventa frase aperta. Accusa lucente. Loro stanno già correndo ai ripari. Come? In due modi.
Primo: distolgono l’attenzione dai veri problemi. Minimizzano.
Mentre masse di miserabili premono ai confini e dilagano nelle città, ci parlano di sistema elettorale. L’intolleranza, soprattutto di chi viene ospitato, divora come un cancro le carni del Paese. L’egoismo, soprattutto di chi ospita, aumenta l’odio degli immigrati. E loro ci spiegano che va tutto bene. Ci rincoglioniscono di grandi fratelli e partite di calcio. Panem et circenses. Niente di nuovo sotto il sole. Per combattere queste critiche, hanno inventato una parolina che non spiega, ma accusa: “qualunquista”. Ebbene, qua
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lunquista lo è chi per primo lo dà agli altri. Mentre il potere d’acquisto delle famiglie italiane precipita, ci educano al cellulare. La priorità è cambiare modello e suoneria. Nuove finanziarie sorgono per pagare l’illusione. La vacanza, il trattamento estetico. Con la pazienza della goccia, ci hanno educati al debito. Così, senza accorgerci, troviamo normale pagare la spesa a rate.
Secondo: iniettano paura. Il ricatto nascosto è questo: solo con noi puoi essere tranquillo. Il telegiornale della sera, con immagini pietose, evita lo zoom sui corpi devastati. Si sofferma sulle lacrime delle vedove. Sui volti di pietra dei figli. Il nostro odio si gonfia. La razionalità muore. Il colpevole è lì. Davanti ai nostri occhi. Servito nel piatto della cena. Vi sono molti sistemi per iniettare la paura. Questo libro è uno di essi. Ma se fosse così, perché ti raccontiamo i retroscena? Perché sveliamo il trucco del sistema? La risposta è molto semplice: perché non tutto è come appare. Il bianco è nero. L’innocente, colpevole. Come un gioco infinito di specchi, dove la soluzione è il continuo riflesso. Il nostro obiettivo è la tua paura. Fuoco, vento e terra sono gli elementi della purificazione. Milano. Via Lanterna. Numero civico 32.
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L’INIZIO DEL GIOCO
AM inserì un cd di J.J Cale nel lettore dell’automobile. Il suono dolcissimo di “magnolia” si diffuse nell’abitacolo. Francesca osservava i boschi e le vallate oltre il finestrino. Ad ogni tornante, un paesaggio sempre nuovo e identico. Sul bordo della strada, alcuni contadini, nodosi come legni d’ulivo, trasportavano sulle spalle gerle colme di fieno. Poco più avanti, pastori dalle bocche rotte accompagnavano il passo dei muli. Erano partiti di mattina presto. Volevano arrivare verso mezzogiorno al Passo del Melogno, un posto sperduto nell’entroterra ligure. Proseguirono per lunghi minuti senza parlare, mentre una leggera foschia danzava nell’aria. Lenta.
– A cosa pensi? – chiese infine AM – A niente – rispose Francesca, rannicchiandosi sul sedile – mi lascio cullare dalla musica e dal verde – – Vedrai – continuò AM, senza distogliere lo sguardo dalla strada – E’ un posto molto particolare. Ci venivo da bambino a giocare insieme a mio nonno. Sei la prima ragazza che porto fin quassù! – Dopo un breve rettilineo in salita, ecco una galleria di pietre grezze che tagliava un’antica fortezza napoleonica. – Ogni volta che vedo questi ruderi – disse AM – penso a tutti i soldati della guarnigione che ci hanno trascorso lunghi inverni. Mi ricorda un po’ l’atmosfe37
ra nel “Deserto dei Tartari” di Buzzati. Questo era un avamposto strategico per impedire a un eventuale esercito, sbarcato sulla costa, di raggiungere il Piemonte attraverso le alpi e gli appennini –
– Grazie professore! – rise Francesca, dandogli un pizzicotto sulla guancia. – Pizzica, pizzica, ignorantona! – AM curvò a sinistra, proprio alle spalle della fortezza, e parcheggiò l’auto in uno spiazzo davanti a una trattoria. – Ecco – esclamò tirando il freno a mano – prima di gustare le delizie dell’entroterra, ti propongo una romantica passeggiata nel bosco – – Un po’ inquietante, ma va bene –. I due ragazzi si incamminarono lungo un sentiero sterrato che s’infilava dritto nel bosco. Dopo qualche passo, erano circondati da migliaia di faggi altissimi. La luce del sole filtrava tra le foglie creando vaghe forme di malinconia. Sulle cortecce grigie e liscie brulicavano ombre e formiche. – Giochiamo a nascondino – disse all’improvviso Francesca, lasciando la mano di AM. Si mise a correre, scomparendo dietro a una curva del sentiero. – Dài, Francesca. Non ho voglia di correre – – E chi dice che devi correre ?– rispose una voce lontana. Per un istante, AM fu percorso da un brivido. Quella voce non era di Francesca. O forse, la distanza ne aveva distorto il timbro. All’improvviso, AM notò una figura nascondersi die38
tro gli alberi. E poi un’altra, esattamente dall’altra parte. Non erano soli in quel bosco. AM continuò a camminare affondando i piedi in un tappeto di foglie sempre più spesso. – Francesca, basta. Non è divertente – Ma nessuno rispose. Percorse angosciato una cinquantina di metri. In lontananza, vedeva un oggetto per terra, ma non riusciva a capire cosa fosse. Più si avvicinava, più i contorni di quell’oggetto diventavano sfuggenti. Era in parte ricoperto dagli sterpi. Finalmente vicino, lo raccolse. Era la borsa di Francesca. Un’ombra alla sua sinistra. Un fruscìo. AM si volse di scatto e vide un braccio spuntare da un manto di foglie. Immobile.
– Francesca – urlò disperato e l’eco si perse tra gli alberi. Con furia, iniziò a togliere le foglie da quel corpo. Liberò il petto, il collo e, finalmente, il volto. Era quello di sua madre. Sfigurato dall’incidente. Magnolia di J.J. Cale continuava dolcissima nella stanza. Con un colpo secco, AM interruppe la radiosveglia.
– Che cazzo di sogno! – pensò mettendosi a sedere sul bordo del letto. Fuori continuava a piovere. All’improvviso, ricordò tutto. Il biglietto. La chiesa. 39
La busta blù. Fuoco, vento, terra. E l’esame appena superato. L’unico contatto che gli avrebbe permesso di capire qualcosa era il professore. Non poteva esse-re certo una coincidenza la domanda sul nesso basco–caucasico. Il biglietto lo aveva messo in guardia. Aveva previsto lo svolgimento del colloquio. Forse quell’uomo non era un professore, ma uno di loro. Già. Ma “loro” chi? Dopo l’incontro nel confessionale, l’ipotesi di uno scherzo andava decisamente scartata. Nessuno dei suoi amici poteva arrivare a tanto. Mentre riponeva nel suo Eastpak le chiavi e il cellulare, decise di andarlo a cercare. Si chiamava Enrico Barzi. E, in effetti, il suo nome era inserito nel programma di studio. Aveva anche pubblicato due libri di Storia della lingua eleusina considerati la bibbia italiana sull’argomento. Una volta dentro la “Statale”, iniziò a girovagare tra i chiostri. Solo studenti e mendicanti. Decise allora di proseguire più all’interno verso la facoltà di Lettere Classiche. All’ingresso, due ragazze grasse e con gli occhiali, così simili che sembravano riflettersi in uno specchio, ridacchiavano davanti a una copia di Novella 2000. AM passò tra loro colpendo con una spalla la ragazza di sinistra e, incurante delle sue rimostranze, puntò dritto alle scale. Fece gli scalini due alla volta.
– Il professor Barzi – chiese a un bidello, scuotendolo dal suo torpore. – Oggi non riceve – rispose quello rimettendo gli 40
occhi sul giornale. – Non ha un numero di cellulare. Un indirizzo? –
– Anche se li avessi, non potrei darteli. C’è la legge sulla privacy – – Da quando c’è la legge sulla privacy – sbottò AM – tutti hanno iniziato a farsi i cazzi miei! – Il bidello tornò a guardarlo perplesso, ma anche un po’ divertito. – Senti – gli disse infine – prova al Bar Socrate. Di solito è lì a scrivere. E’ il suo terzo ufficio – – Il terzo? – – Sì. Il terzo. Dopo la facoltà e casa sua – e questa volta si inchiodò per sempre al giornale. Il professore occupava un tavolino in fondo alla sala. Nel locale, c’erano poche persone, per lo più studenti. AM rimase immobile, incerto sul da farsi. All’improvviso, Barzi si accorse di lui e lo invitò ad accomodarsi con un leggero cenno della mano.
– Credo sia venuto qui invano, ragazzo mio – disse con un sussurro, appena AM si fu seduto di fronte. – Io… – – Non è necessario spiegare o porre domande – lo interruppe il professore – e il motivo è semplice: so quello che vuoi dirmi, ma non posso risponderti. Ti prego di notare che ho detto “non posso”. Non posso perché non so nulla – – Almeno una cosa la sapeva, però, – gli disse AM guardandolo negli occhi. – Se ti riferisci alla domanda sul nesso basco–cauca41
sico, hai ragione. Ma non posso dirti chi mi ha detto di fartela o perché. Non posso perché ignoro il chi e il perché – – Ma come è possibile? –
– Non sei il primo studente a sedersi qui con me. E credo proprio non sarai l’ultimo. Capita di rado. Direi una volta ogni quattro anni. E’ iniziato tutto vent’anni fa. Esattamente il 17 settembre del 1985. Una data che non potrò mai scordare. Quella sera, trovai nella mia cassetta postale una busta. Nella busta una lettera. Nella lettera mi veniva chiesto di porre una precisa domanda a un preciso studente che avrebbe affrontato il giorno dopo l’esame di Storia della lingua eleusina. Se lo avessi fatto, mi si assicurava… diciamo una… una… ecco, una “gratificazione professionale”. Così ho fatto. Anche perché non avevo nulla da perdere – – Ho controllato il suo curriculum – disse AM con tono di sfida – lei è stato assistente fino al 1985 e ha ottenuto la cattedra nell’inverno di quell’anno – – Che coincidenza! – esclamò Barzi. – Lei è un corrotto. Io potrei denunciarla – – Senti ragazzino – e puntò gli occhi di AM – Non accetto né minacce né morali da uno come te. Se sei entrato in questo giro, avrai anche tu un tornaconto. Cosa ti hanno promesso? Soldi? Carriera? Forse l’omicidio di un tuo nemico? – e con una voce bassissima continuò – vai alla polizia. Denunciami! Che cos’hai in mano? Te lo dico io: niente. Prima di alzarti e scomparire dalla mia vita, un piccolo avvertimento: gli studenti che ti hanno preceduto, quelli che crede42
vano di essere furbi, sono scomparsi. Nessuno li ha più rivisti. Un vero mistero per la famiglia e gli amici. Dietro a tutto questo c’è un’organizzazione occulta e potente. Con ramificazioni immense e capillari che ti arrivano dritte nel culo. Loro ci osservano. Sanno quello che pensiamo ancor prima che lo pensiamo. Conoscono particolari della nostra vita che ci sfuggono. Credi di agire. Prospetti un piano. Ti muovi. In realtà, hanno già previsto ogni tua mossa. Sei una pedina inconsapevole sopra una scacchiera –. AM notò come Barzi passasse dal “tu” al noi”. Mentre parlava, allineava la costa dei libri sul bordo del tavolino per nascondere un improvviso nervosismo. Forse era entrato nel bar qualcuno di “loro” e li stava osservando. AM si girò per dare un’occhiata all’ingresso, ma tutto era come prima. Quando tornò sul volto del professore, vide una persona impaurita. Per un istante provò, addirittura, un po’ di pena per lui. Un conato lo colse all’improvviso. Adesso, l’unica cosa che gli premeva era alzarsi da quel tavolino e andarsene lontano.
– Sei un fallito. Vaffanculo – riuscì a sibilare prima che un nuovo conato lo prendesse. Barzi rimase impietrito. Sordo all’offesa. Quando Am si girò per l’ultima volta dall’ingresso, lo vide ancora là. In mezzo ai suoi libri e alla sua paura. Una volta fuori, respirò profondamente il freddo del-l’inverno e si diresse verso il piccolo giardino davan43
ti alla “Statale”. Si sedette sopra una panchina, accendendosi una sigaretta. Una madre con il passeggino gli passò di fianco incuriosita. In lontananza, uno stridìo di rotaie come aghi nel cranio.
– Che cazzo di storia! – esclamò ad alta voce. Un uomo che teneva al guinzaglio un cane lupo lo osservò per tutto il tempo che il suo animale impiegò a pisciare. – Sì. Che cazzo di storia! – ripeté AM fissando l’uomo con aria di sfida. Senza accorgersi, si era già alzato. Ed ora vagava per le strade del centro. Cosa doveva fare? Con chi poteva confrontarsi? Era forse il caso di chiamare suo padre? No. Che idea di merda. Quando mai suo padre aveva rappresentato una soluzione? E poi, nel confessionale, erano stati chiari: nessuno doveva sapere. Non voleva coinvolgere altre persone in quella follia. Sia ben chiaro: di suo padre non gliene fregava niente, ma se lo avesse messo al corrente, avrebbe potuto chiamare qualcuno, a sua insaputa, e combinare un casino. Con questi pensieri, AM raggiunse via Cordi dove si trovava la sua banca, la Trinkgeld Bundesbank. Attese qualche minuto davanti al bancomat occupato da una vecchietta bassa e nera. Si sentiva spiato. Aveva la sensazione che ogni passante lo scrutasse con insistenza. Quasi sentiva il loro sguardo appiccicarsi alla pelle. Intanto la vecchietta digitava nuovamente il proprio 44
codice di accesso e con la mano a visiera osservava angosciata il terminale. – Per cortesia, Piazza dei Mercanti? – AM si volse verso la persona che gli aveva chiesto l’informazione e iniziò a guardarla senza rispondere. Dopo un attimo di imbarazzo, quello se ne andò sussurrando un “grazie” delicato e ironico come si fa con i pazzi. La vecchietta continuava ad armeggiare con la tastiera.
– Ma qual è il problema, signora? – sbottò AM – Il problema, giovanotto – rispose la donna – è che ho 82 anni ed è la seconda volta nella mia vita che uso questo arnese. Quando avrà la mia età, affronterà anche lei i miei stessi problemi. A quell’epoca, infatti, credo proprio che tutti questi marchingegni saranno ancora più complicati – – La posso aiutare? – – No. Caro. E’ la seconda volta, ma conosco perfettamente i rischi. Noi vecchietti siamo una preda facile e prelibata in questa foresta di lupi. E stia un po’ più lontano che mi vede i codici! – – Voi vecchietti di città siete sempre più cattivi! – – Se mi seguisse durante il giorno capirebbe anche il perché, giovanotto. Dal basso della sua giovinezza, non può vedere quello che vedo io da quassù. Ed ora, non mi interrompa che c’è un passaggio difficile! –. Am incrociò le braccia e si armò di pazienza. Finalmente la vecchietta riuscì nell’impresa e, ritirati soldi e carta, gli passò davanti con un sorriso soddisfatto. 45
Quando AM si piazzò davanti al bancomat, un’autoambulanza a sirene spiegate sfrecciò alle sue spalle. Il suono acuto si inchiodò nel cranio e, per un momento, non riuscì a muovere un dito. Quando si fu ripreso, digitò il codice e chiese la lista degli ultimi dieci movimenti. Mentre la stampante interna iniziava il suo lavoro, AM cercò di ricordare a quanto dovesse ammontare il suo capitale. C’era la spesa. La pizzeria della settimana precedente. Le adidas e il nuovo cellulare. Secondo i suoi calcoli dovevano rimanere ancora 200 euro circa. Finalmente lo scontrino sbucò dalla fessura. AM lo mise in tasca senza guardarlo e ritirò la tessera. Poco più avanti, un cancello in ferro battuto si apriva davanti a un piccolo giardino. AM si incamminò lentamente, continuando a guardare tutti i volti che incrociava. Una volta dentro, si diresse verso una panchina vuota vicino a una fontanella comunale. Alcuni ragazzi si esibivano tra loro con gli skateboards, saltando veloci una breve scalinata. Faceva un freddo cane. Una volta seduto, prese tra le mani il foglietto piegato senza il coraggio di guardarlo. Era come se lì sopra ci fosse scritta la sua condanna. Da una parte desiderava prolungare il più possibile il momento del verdetto. Un limbo temporale che gli permetteva ancora riflessioni tranquillizzanti. E’ vero. Nessuno dei suoi amici poteva essersi spinto a tanto. Ma l’ipotesi di uno scherzo non era definitivamente morta. Finora, però, quello scherzo, di certo ben architettato, per di più con la complicità di un pro
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fessore, aveva avuto un costo zero. Dall’altra, il prolungamento dello stato di incertezza gli procurava dolore. Una sospensione nel vuoto. L’unica soluzione era sapere. 253.237,00. AM rimase inebetito davanti a quella cifra. Non sapeva cosa pensare. Una vampata nel petto gli tolse quasi il respiro. Paura e gioia si alternavano. Si mescolavano tra loro. E assumevano la forma fisica del vapore azzurro che gli usciva dalla bocca. Lentamente iniziò a ragionare. I 250 mila euro rappresentavano la prima metà del pagamento. Gli altri 3000 servivano per la stampa del libro. I 237 erano gli unici soldi realmente suoi. Chi aveva effettuato il bonifico? Doveva esserci una traccia. Lo scontrino riportava solo l’accredito senza altre indicazioni. Decise di entrare in banca per scoprire qualcosa.
– Buongiorno – lo salutò un funzionario che stava per infilarsi in un ufficio con una cartella in mano – la stavamo per contattare. E’ una fortuna che lei sia qui! – – C’è qualche problema? – chiese AM teso. – Direi proprio di no. Volevamo fissare un appuntamento per mostrarle nuove forme di investimento riservate – – Riservate? – – Sì. Intendo riservate ai nostri top client! – e con la cartelletta diede un colpetto di complicità sulla spalla di AM. 47
– In questo momento non posso – rispose notando che in sala, davanti al cassiere, non c’era fila – devo dare un esame e sono in ritardo. Sono passato solo per sbrigare una cosa al volo – – OK. Allora la chiamo uno di questi giorni – gli disse il funzionario ad alta voce perché AM era già quasi allo sportello. – Vorrei un estratto conto dettagliato dal primo ottobre e saldo finale – chiese brusco al cassiere. Intanto, il dirigente era ancora fermo vicino all’ingresso e non gli toglieva lo sguardo di dosso. AM ritirò i fogli e uscì dalla banca veloce senza guar-dare il dirigente. L’emittente del bonifico corrispondeva alla società Sifark srl. Non era specificato altro. Sicuramente il cassiere poteva fornirgli qualche indicazione in più, ma AM non voleva tornare in banca con il rischio di incontrare ancora il dirigente. E poi gli aveva detto di avere fretta. Il suo comportamento sarebbe stato troppo sospetto. Decise quindi di infilarsi in un Internet point e cercare una pista in rete. Ordinata una tazza di caffè americano, AM si sedette alla propria postazione e andò su Google. Inserì “sifark” nella maschera di ricerca. Dopo qualche istante, venne visualizzato un solo risultato: era una directory remota di un sito straniero. Cliccò sul link e apparve una pagina molto strana. Si trattava a prima vista di una ricetta culinaria. Forse il sito era un blog di buongustai. Erano inseriti quattro campi principali: nome di chi proponeva il piatto, e–mail di riferimen48
to, istruzioni per la preparazione, ingredienti. Il fatto strano era che i campi contenevano una serie indecifrabile di lettere. Sembrava la traslitterazione italiana di un testo in cirillico. Ma soffermandosi sulla pagina, appariva chiaro che non esisteva un senso. Solo un’accozzaglia di lettere.
– Se Google ha fornito questo solo risultato – pensò AM, sorseggiando il caffè – significa che qui dentro la parola sifark esiste –. All’improvviso, scorrendo con il mouse il campo “ingredienti”, AM notò, in mezzo alla confusione di lettere, ciò che cercava. Esattamente alla riga numero 17. – E’ una specie di rebus – si disse, continuando a scorrere i vari campi. In effetti, AM notò che la chiave di lettura si basava su un sistema di acrostici complessi. La lettera iniziale di una riga era collegata alla prima di quella seguente. A volte anche alla seconda. A complicare le cose, alcuni acrostici seguivano una linea diagonale. AM impiegò circa due ore, ma alla fine aveva un indirizzo in tasca. Il numero civico, in quella massa di lettere, era stato criptato con l’alfabeto latino. Raggiunse il luogo nel tardo pomeriggio, dopo aver cambiato due tram e tre autobus. Era un piccolo capannone industriale a Palazzolo Milanese, alle porte di Milano. Una cancellata grigia delimitava l’intero perimetro. La zona era isolata. Solo un piccolo gruppo di villette a schiera segnalava che qualcuno viveva in quella desolazione. 49
Il capannone appariva disabitato. Le ampie aperture sui lati, forse un tempo finestre, erano chiuse da pesanti pannelli in legno. La scritta “Sifark”, inserita in una targa di ottone sul cancello, era praticamente illeggibile. All’improvviso, un cane iniziò ad abbaiare da una delle villette circostanti. Dopo qualche secondo, spuntò il padrone che zittì l’animale con un ordine secco.
– Posso aiutarla? – chiese ad AM, alzando il bavero della giacca e avvicinandosi al cancelletto della propria abitazione. – Grazie. Cercavo un amico che non vedo da tempo. Ricordo che questo capannone era suo – – Non doveva essere un grande amico! – Davanti al volto perplesso di AM, continuò – Mi scusi. Era una battuta. Io abito qui da 20 anni e il capannone è sempre stato di proprietà della Sifark. A meno che il suo amico non lavori per la Sifark –. AM scrollò la testa. – Ah – continuò l’uomo – anche perché, in tal caso, sarei stato curioso di sapere di cosa si occupa. In venti anni, non ho mai visto nessuno. Impiegati, macchine. Niente. Neppure il postino. Pensi che abbiamo chiamato tante volte anche la polizia. Ma non hanno fatto nulla. Ormai, se telefoniamo, non vengono più –. – Mario, ti cercano al telefono – urlò una donna dalla soglia della villetta. – Arrivo! – rispose l’uomo, e con un cenno della testa si accomiatò. AM rimase immobile in mezzo alla strada sterrata. 50
Privo di pensieri. Sentiva solo un gran freddo. Si riprese al trillo del suo cellulare. – Mai una telefonata, eh? – – Scusami, Francesca è che… –
– Senti – lo interruppe la ragazza – adesso inizio a preoccuparmi. Sono tre giorni che non ci vediamo. Questa sera voglio cenare con te. E offro io. – – No. Mi voglio far perdonare – sussurrò AM. – Ho detto che offro io. E poi, in questi giorni di fine mese, lo sai che sto messa meglio a soldi. Dài, ci vediamo direttamente alle otto all’osteria sotto casa tua. Ok? – – Ok – – Bravo bambino. Così mi piaci. A ‘stasera – e chiuse la comunicazione. AM si incamminò verso casa. Attese il primo autobus più di mezz’ora. Cullato dalle vibrazioni del mezzo, iniziò a realizzare, per la prima volta in quel giorno, che era ricco. Intendiamoci, 250 mila euro non cambiano la vita di un uomo con famiglia. Ma quella di un ragazzo, quasi sempre al verde, sì. Poteva finalmente acquistare un’automobile. Viaggiare. Entrare in un negozio di abbigliamento senza lo stress di fare calcoli al centesimo. Ed era solo l’inizio. La cifra in banca rappresentava la prima tranche del pagamento! Eppure, la paura e la gioia del mattino non erano scomparse. Continuavano a mischiarsi e alternarsi senza sosta. 51
Sì. Paura. Qual era il prezzo da pagare per quella fortuna improvvisa? Sicuramente l’incertezza. Il dubbio. La zona d’ombra intorno a tutta quella storia pazzesca. Le minacce del professore gli tornavano alla mente. Ad ogni passo si sentiva spiato. Occhi invisibili raschiavano la sua mente e la sua testa. E perché il ragazzo seduto là in fondo continuava a fissarlo? Stava diventando paranoico? Volse gli occhi oltre il finestrino. Ciminiere lontane rigavano il cielo. Un randagio zampettava sul ciglio della provinciale. Lo spostamento d’aria causa-to dall’autobus lo fece barcollare. AM ebbe appena il tempo di girarsi per vedere il suo musetto impaurito, ma tenace. Poi una curva lo cancellò dal suo sguardo. Scese all’inizio di viale Zara e attese l’arrivo del tram. Il ragazzo lo seguiva. Rimasero uno di fianco all’altro per circa cinque minuti. Ogni tanto, AM gettava un’occhiata, ma quello era apparentemente assorto nella lettura di un libro. Quando salirono, si sedettero distanti. AM si fermò ai primi posti del fondo, lasciando che il ragazzo lo superasse. Ecco la paura. Ecco l’incertezza. Ecco il prezzo da pagare. Ne valeva la pena? Per il momento sì. Non aveva ancora commesso nulla di illegale. La sua dignità era ancora integra. E poi che cosa gli chiedevano? Un’operazione semplice semplice. Assemblare materiale per la pubblicazione di un libro. C’era ancora tempo. Nei prossimi giorni avrebbe contattato i vari fornitori. Prima, però, doveva attendere di avere in
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mano il plico finale. Che male c’era a stare un po’ alla finestra, godendosi qualche euro? Intanto, il ragazzo continuava a fissarlo. AM prese la decisione in una frazione di secondo. Tirò la maniglia di emergenza.
– Ferma, ferma! – urlò come un pazzo. Senza accorgersi, era già per strada. L’autista riprese la corsa senza farsi troppe domande. Am riuscì a vedere ancora il ragazzo che, al di là del finestrino, gli mostrava il medio della mano sinistra, mentre con l’altra fece il segno di tagliargli la gola. Entrò in casa verso le 19 e 30. Sembrava tutto in ordine. Si buttò sotto la doccia. E questa volta sentiva solo paura. Puntuale come sempre, Francesca lo aspettava già davanti all’ingresso dell’osteria. Era arrivata a Quinto Sole in taxi. Indossava il cappotto scuro di Luisa Spagnoli che AM le aveva regalato lo scorso Natale. Quando lo tolse, apparve ancora più il suo corpo stupendo, fasciato da un abitino nero. Nella penombra gentile della sala, la piccola candela sul loro tavolo ondeggiava fragile e accarezzava i seni di Francesca. Il suo sorriso, aperto e disarmante, fu un soffio di serenità sull’angoscia di AM. Avrebbe voluto raccontarle tutto. Chiedere consiglio. Farla sua complice in quella bizzarra avventura. Ma qualcosa lo trattenne. Ancora la paura. Paura di coinvolgere la sua ragazza in una storia ancora da scrivere. E se l’avessero già contattata? E perché poi avreb53
bero dovuto farlo? Eppure…
– Hai qualcosa da dirmi? – le chiese all’improvviso – ti è capitato niente di strano? – – In che senso? – rispose Francesca – ma sei scemo? Tu, piuttosto, da quando hai dato l’esame sei sparito – – Ma ci siamo sentiti – si difese AM. – Sì. Perché ti ho chiamato io. E poi, scusa, ti ricordi che razza di telefonata? Sembravi in trance e sei stato molto freddo. Ma che succede? Guarda, se mi vuoi lasciare non tirarla troppo per le lunghe. Non sopporto l’ipocrisia. Hai un’altra storia? Sei stanco? Ti chiedo solo di non prendermi in giro –. AM le prese la mano e sorrise con dolcezza. – Io ti amo. E molto. Non potrei mai. E’ solo che… – – E’ solo che cosa? – chiese Francesca, lasciandogli bruscamente la mano. – E’ solo che in questo periodo mi manca mia madre. Mi manca come non è mai successo da quando è morta. Vorrei parlarle. Anche del tempo. Della mia carriera universitaria. Solo parlarle. La scorsa notte ho fatto un sogno bruttissimo. Ho visto il suo volto sfigurato dall’incidente – – E’ normale amore mio – lo tranquillizzò Francesca, riprendendo la sua mano – quelli che hanno studiato parlano di “elaborazione del lutto”. Ci vuole tempo. Un dolore è come un livido. Devi aspettare che passi –. Davanti a un sorriso ironico di AM, la ragazza continuò – Sì. Lo so. E’ una frase fatta. Ma non per questo meno vera. Anch’io ti amo. Uniamo le nostre forze. Uniamo la nostra energia. Un giorno ci ricorde54
remo di questo periodo con nostalgia. Tu all’università, i miei genitori brontoloni, i soldi che non bastano mai… – – A proposito dei tuoi genitori, ti hanno fatto storie? – – No. Ho promesso di rincasare prima delle due –
– Ma perché dobbiamo avere sempre i piaceri a rate? Siamo l’unica coppia che vive ancora con le regole dell’800 – sbottò AM. – Dài. Godiamoci invece le ore che abbiamo a disposizione. Vedrai che un giorno finiremo di pagare le rate! – – Sì. Brava. E quando sarà? – – Per esempio, quando ci ritroveremo davanti all’altare – sussurrò Francesca, guardandolo negli occhi. – Cioè, tu saresti disposta a sposare uno come me? – quasi balbettò AM. – Sì. Senza il minimo dubbio. Sei una persona dolcissima e, per dirti un’altra frase fatta, davvero non riesco a immaginare la mia vita senza te –. Trascorsero il resto della cena ricordando le passate vacanze estive e programmarono di festeggiare S. Silvestro a Parigi. – Ecco il conto – il cameriere sciabolò questa frase tra la loro intimità. Dopo una breve schermaglia, vinse Francesca. Entrarono nella mansarda in silenzio. Dalla finestra obliqua, il pallore della luna rischiarava la penombra. Francesca si sfilò il vestito ai bordi del letto. I suoi lunghi capelli neri le coprivano confusi il petto. 55
Indossava delle mutandine rosa che s’incastravano magnifiche tra le natiche sode. Si adagiò sensuale e AM con lei. Iniziò a leccarle la schiena e poi le braccia. Francesca, leggermente girata, gli accarezzava il pene attraverso i jeans. Una volta nudi, iniziarono a fare l’amore. Fuori, aveva ripreso a piovere. All’inizio un picchiettìo gentile. Poi uno scroscio forte e cupo. Così intenso che sovrastava i loro sospiri. Per una bizzarra coincidenza, raggiunsero l’orgasmo insieme al rombo di un tuono. I vetri iniziarono a vibrare. AM, disteso e con gli occhi chiusi, sentì quel ronzìo passargli sulla pelle ed entrare nella testa amplificato. Sempre più intenso. Insopportabile. Si alzò di scatto per andare a bere.
– Me ne dài un po’ anche a me? – chiese Francesca, passandosi una mano tra i capelli. La sua voce, come prima il suo sorriso, spazzò via tutte le angosce di AM. Rimasero a sonnecchiare, cullati dalla pioggia ritornata gentile. Un cane abbaiava lontano. Forse nel cortile di una fattoria dove una famiglia riposava dopo il lavoro nei campi. Un’immagine antica che sprofondò nel sonno AM. Nella mansarda, ora, è tutto tranquillo. – Porca Miseria! – urlò Francesca – Le due! Questa volta mi menano sul serio! –. Mentre a fatica AM cercava di riprendersi, la ragazza si era già vestita e chiamava al cellulare il servizio 56
radiotaxi. Attesero dieci minuti l’arrivo della macchina davanti al portone. Le gocce fredde sul volto di AM erano una continua ferita. Un piccolo e intenso dolore fisico, dopo la morbidezza e il calore del letto. Finalmente il taxi arrivò.
– Il prossimo acquisto è una macchina. Anche di seconda mano! Ti amo – gli disse Francesca prima di chiudere la portiera. AM la vide scomparire nella notte. Ora c’era solo lui in strada. Prima di rincasare, si accese una sigaretta e fece quattro passi. L’osteria era ormai chiusa. Tutte le finestre della palazzina in cui abitava serrate. All’improvviso, non si sentì tranquillo. Quella maledetta paura, che lo perseguitava da ore, tornò più violenta di prima. Lanciò il mozzicone in un fossato che costeggiava la strada e raggiunse il portone di corsa. Lo chiuse dietro di sé con rabbia e il rumore metallico rimbombò nell’androne. Iniziò a salire gli scalini con lentezza, sfiorando il corrimano in legno scuro. Arrivato al primo piano, lo raggiunse un rumore di passi. Per uno strano effetto acustico, non riusciva a comprendere se la persona stesse salendo o scendendo. Se scendeva, AM lo avrebbe incontrato sicuramente perché abitava all’ultimo piano. Tac, tac, tac. Il rumore dei passi accelerava come i battiti del suo cuore. AM sentiva una presenza estranea sia davanti sia alle sue spalle. 57
E se le persone erano due? Lo avrebbero chiuso all’altezza del terzo piano. AM prese la chiave più lunga del mazzo e la fece uscire come uno spuntone dal pugno chiuso. Era pronto a tutto.
– AM – sussurrò una voce come in un film del terrore. Era impossibile capire da che parte arrivasse. – AM – si sentì ancora nell’aria. Am iniziò a correre verso l’ultimo piano. Raggiunse la porta di casa senza incontrare nessuno e se la chiuse alle spalle. Rimase immobile. Sospeso. – AM – ora la voce era dentro casa. – Chi cazzo sei? Fatti vedere? – urlò sconvolto. Intanto i passi si erano fermati sul pianerottolo. Proprio davanti alla sua porta. In quel momento, quindi, c’erano due persone. Una in casa. L’altra fuori. Con la forza della disperazione, AM si diresse verso la camera da letto e vide che le finestre oblique della mansarda erano aperte. Prese una sedia per affacciarsi, perché erano collocare in alto, e vide un’ombra fuggire sul tetto. In quell’istante, sentì qualcuno correre giù per le scale. Le finestre non permettevano di vedere giù in strada e AM non aveva alcuna intenzione di uscire. Si sedette sul letto, aspettando che l’adrenalina si sciogliesse, e si accese una sigaretta. 58
Con la coda dell’occhio, vide un plico sotto il cuscino. Lo aperse. Era il nuovo materiale con un nuovo messaggio.
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TERZO MESSAGGIO
Per governare una nave servono timone e pilota. In Italia, mancano l’uno e l’altro. Oggi ti svelo un segreto di Pulcinella. I politici non sono potenti. Rappresentano il filtro del liquame. Credi davvero che il governo assuma decisioni in nome del popolo? Non è tanto importante il ministro che occupa un dicastero, bensì chi lo ha posto in quella posizione. La strategia economica della nazione non persegue l’obiettivo dell’interesse collettivo, ma le direttive del potere occulto. Attenzione! Il potere occulto è internazionale. Sciabola trasversale il mondo. Lo taglia con fendenti precisi perché ogni fetta della torta sia sotto controllo. Ieri Europa. Oggi Cina e India sono i nuovi eletti. I vincitori del biglietto miliardario. I soldi per acquistare il frigorifero o la lavatrice si sono spostati. Noi siamo la mano d’opera del prossimo futuro. Come si legge “Italia” all’incontrario? Sì. Viviamo ormai alla periferia del sogno. Nomen omen, dicevano i Latini. Ogni nome è un presagio. Le teorie lombrosiane sono state gettate in soffitta. Farneticazioni. Riflessioni prive di base scientifica. Come ci insegna il divino maestro delle sale, Sua Eminenza Alberto Sordi, “la faccia del ladro non fa il ladro”.
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Oggi ti dico che in alcune facce è scolpita la colpa. Basta accendere la televisione per ottenere le prove. Guance paffute, trasudano il grasso del potere. Ridacchiano alle domande del paese e si grattano il culo mentre sei in fila alla posta. Non ammettono responsabilità. Sono consapevoli che non devono rendere conto alla gente, ma a quanti li manovrano. Fingono di litigare nelle trasmissioni con più audience. Spente le telecamere, si danno pacche sulla spalla e decidono l’osteria dove ingrassare il loro ventre immondo. Destra e sinistra danzano unite dal centro. E tu sei fuori dal girotondo. Insensibili a tutto. Vecchi automi del sistema. Sì. Vecchi. Il terzo messaggio è un mosaico. Apparente follia svela l’arcano. Come i responsi della Sibilla cumana sulle foglie di palma. Vecchi automi del sistema. Sì. Vecchi. Figli del passato sempre tra noi. Indovina indovinello: chi centuplicò (non è un iperbole, ma la verità) il proprio fatturato tra il 1917 e il 1918? Carri armati, mas, mitragliatrici e munizioni. Una montagna di soldi che creò un nuovo impero capitalista. Le sue fondamenta poggiano sulla carne dei soldati massacrati al fronte. L’eco delle loro urla è murato vivo dietro alle pareti degli stabilimenti produttivi. Fiat voluntas tua.
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Esiste ancora un baluardo millenario all’invasione barbarica. Tra le sue pietre, scartate dai costruttori, vi sono crepe sempre più ampie e preoccupanti. Nelle notti piovose, e questa è una di esse, si odono scricchiolii spaventosi. Sbucano demoni orribili. Tra le fauci, vergini e infanti. Odori abominevoli scaturiscono dai loro orifizi anali. La loro preghiera è bestemmia ed echeggia tra le navate gotiche del tempio. In processione, dileggiano, con sputi e parole, il Cristo. La Chiesa è attaccata fuori e dentro. La buona novella ha perso smalto. Incrostata da paramenti e precetti. Mai un messaggio di pace e rinnovamento è stato così lontano dai giovani. Pochi uomini, deboli e stanchi, si attardano ai portoni d’ingresso. Ma i loro gesti e le loro parole sono troppo antichi per essere compresi e stimolare una reazione. Eppure, la Chiesa esercita il suo fascino sugli ultimi idioti. I suoi nemici lo trovano inconcepibile e troppo rischioso. Due le alternative: convertire gli idioti o eliminarli. Parlare di Dio non è più di moda. La strategia ha un solo obiettivo: accelerare la dissoluzione del bene. Gli ultimi guardiani devono morire. Meglio se tra le risate generali. Abbiamo già ottenuto un enorme risultato: estirpare le radici cristiane dall’occidente. Manca l’ultimo scossone. Una leggera spallata che frantumerà il baluardo. Stiamo riuscendo in qualcosa di incredibile: sostituire l’antica religione con una fede laica.
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Questo piccolo libro è uno degli innumerevoli tassel-
li. Un seme di veleno nelle strade della città. I servizi segreti sono lo strumento dell’azione. Il ministro sta al suo dicastero, come il dirigente alla sezione. Burattini sul baratro della fine. La trama tessuta è semplice e immediata. Uno studente dentro a un gioco più grande. Potevamo esprimere le nostre teorie con una serie di messaggi. Senza romanzare. Ma la medicina va addolcita. Di più. Va nascosta. Perché tu possa ingerirla quasi senza accorgertene. Ci sarà un giorno della prossima primavera in cui tutto si chiarirà. Come un sasso nell’acqua deve toccare il fondale prima che i suoi contorni appaiano netti. Per il momento sta oscillando. Sospeso in un manto liquido. Intorno c’è silenzio. Alcuni pesci lo osservano stupiti. Senza intuire la sua destinazione. Intanto, goditi i reality show e cambia il modello del tuo cellulare. 63
L’ALBUM FOTOGRAFICO
Il campanile della vicina chiesa suonò le sette. I rintocchi si persero nella campagna. AM si svegliò tutto indolenzito. Si era addormentato con le finestre aperte. All’inizio, gli sembrò tutto un sogno. Poi, lentamente, comprese la verità. Ogni particolare della sera precedente era lì, davanti ai suoi occhi. Forse doveva chiamare la polizia. Già, per dire cosa? Quelle persone avevano dimostrato in più occasioni di essere potenti. Il professore aveva ragione. Come si era espresso? Ah, sì: “hanno ramificazioni immense e capillari che ti arrivano dritte nel culo”. No. Non era una buona idea coinvolgere la polizia. E poi, avrebbe rischiato di perdere i 250 mila euro del-l’anticipo. Ad ogni modo, c’era qualcosa che non capiva. Nel confessionale, lo avevano avvertito che ci sarebbero stati 4 contatti. Il primo, appunto, era quello in chiesa. L’incursione notturna, il secondo. Ma perché impaurirlo? Perché utilizzare il terrore per fornirgli il materiale del libro? Volevano metterlo alla prova? Ma perché, insomma? AM ancora non sapeva che una manciata di settimane lo separava dalla risposta. Di nuovo i rintocchi. Era già trascorsa un’ora dal suo risveglio. E non aveva combinato nulla. Ma cosa doveva fare, in definitiva? Scegliere i fornitori per attuare il progetto? Non ancora.
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ll materiale era incompleto. Giurò a se stesso, però, che la volta prossima non si sarebbe fatto prendere dal panico. Se moriva, non poteva terminare quella strana missione. E se avessero incaricato un’altra persona? Chi, o cosa, lo assicurava di essere indispensabile? Potevano eliminarlo senza difficoltà. A questo pensiero, un brivido gli percorse la schiena. Eppure, non aveva senso. No. La sua incolumità fisica era la condizione necessaria per continuare il gioco. Non doveva più pensare all’eventualità della sua morte.
– Cazzo! – pensò mentre caricava la caffettiera – sono arrivato addirittura al punto di ipotizzare la mia morte. Due giorni fa, il mio problema era superare l’esame di Storia della lingua eleusina. E adesso penso che qualcuno vuole farmi fuori! –. Attese il caffè con le braccia conserte e chiuse gli occhi. Dall’esterno, lo raggiunse il gracchiare dei corvi, attutito dalle finestre. – Maledetti! – si disse sorridendo – Ancora non mi avrete! –. Si sorprese di quel pensiero lugubre, ma ironico. E lo tenne come buon auspicio per la giornata. Si avvicinò con la tazza al lettore cd, e mise sul piatto “The dark side of the moon” dei Pink Floyd. Una colonna sonora ideale per quella mattina piovosa di fine autunno. Decise di prendersi il giorno per riflettere. Anzi, per rilassarsi. Aveva anche riflettuto troppo. Doveva solo lasciarsi andare. Farsi cullare dagli eventi. A volte, 65
nella vita, piuttosto che decidere è meglio “essere decisi” da qualcun altro. Questa riflessione gli regalò una serenità improvvisa. Si distese, quindi, sul divano blu, al centro della mansarda, e cercò di addormentarsi. Invano. I corvi. I rintocchi. La paura della notte. Il volto di sua madre sfigurato dall’incidente. Suoni e immagini si mischiavano lenti come il fumo della sigaretta che ora gli pendeva dalle labbra. Qualcuno bussò alla porta. Quando AM la aprì, non riusciva a credere ai propri occhi. Rimasero in silenzio, uno di fronte all’altro, per qualche istante che sembrò un’eternità.
– Entra pure – lo invitò AM, quasi sussurrando. – Che entusiasmo! Anch’io sono contento di vederti – – Non iniziamo, Andrea – tagliò corto AM – ieri ho fatto tardi, e ora sono stanco. A cosa debbo l’onore? – – Guarda che puoi anche dire “papà”. E’ strano sentirmi chiamare per nome da te – lo rimproverò l’uomo con tono bonario. – Ad ogni modo – riprese guardandosi intorno – l’onore è che ti vorrei parlare. Sono in partenza, e allo stato attuale non so quando tornerò in Italia – – Non potevi telefonare? – – No. Volevo vederti. Abbracciarti – – Sono commosso – – Senti, non potresti essere meno aggressivo? Anche per me non è facile – – Beh, PAPA’ – disse AM pronunciando la parola in 66
tono ironico – potevi abbracciarmi quando sei entrato. Ma vedo che le tue abitudini non sono cambiate. Come diceva quel film? “Solo chiacchiere e distintivo”. Che vuoi? –
– Che ne diresti di preparare un piatto di pasta? Magari ci aiuta a rompere un po’ il ghiaccio –. Controvoglia, AM si diresse verso l’angolo cottura. Mentre dal rubinetto versava l’acqua nella pentola, suo padre tirò fuori dal frigorifero qualche ingrediente. Un po’ di pomodori, un gambo di sedano e una manciata di olive nere. Trovò il tagliere nell’armadietto sopra i fornelli ma, prima di utilizzarlo, si mise alla ricerca di uno spicchio d’aglio. AM lo osservava con la coda dell’occhio e fu preso da un senso di tenerezza. – Tieni – disse porgendo al padre una testa d’aglio – per te il soffritto si fa solo così, eh? Mai una cipolla – Andrea sorrise e iniziò a cucinare. Dopo mezz’ora erano seduti a tavola. – Cosa pensi di me come uomo? – – Per favore, papà – – No. Sul serio – Dopo un attimo di esitazione, AM lo guardò negli occhi e disse – Penso che dopo sei mesi dal funerale, ti eri già consolato. Penso che la tua relazione sia iniziata prima della morte della mamma. Penso che non ti ho mai visto quando avevo bisogno di te. Penso che a un padre come te sia preferibile il nulla – . La pioggia aveva ripreso a battere contro i vetri. Andrea rimase immobile davanti al piatto. Poi, lentamente, appoggiò la forchetta sul tavolo. 67
– Ti sei mai chiesto – sussurrò infine – cosa vuol dire perdere tua moglie in un incidente stradale dove guidi tu? Sai cosa significa rimorso? E senso di colpa? Credi che il dolore sia una tua esclusiva? Solo tu hai il diritto di soffrire? – – Papà: sei mesi dopo stavi già con un’altra – – E’ vero. Ma non l’avevo ancora conosciuta quando ero con tua madre – – Forse è ancora peggio – sentenziò AM con lo sguardo fisso nel piatto ormai vuoto. – Ero disperato. Mi sentivo solo. Ti chiedo scusa. Ma alcune emozioni non si misurano con l’orologio. Ti chiedo scusa dal profondo del mio cuore per tutto il male che ti ho fatto. – Andrea aveva gli occhi lucidi e la voce rotta. AM si alzò dalla sedia e gli accarezzò la testa. Rimasero così per un lungo minuto. – Senti AM – disse infine l’uomo – in quella busta sul divano ci sono cinquemila euro. Di più non riesco. Cerca di farteli bastare fino al mio ritorno – – Ci pago otto mesi di affitto con quelli. Ma quanto stai via? – – Non lo so. Mi farò vivo io – – E Lucia? – chiese AM, quasi sovrappensiero – Ti ricordi il suo nome? – – Sì. E’ una brava donna. Non te l’ho mai detto, ma mi piace – – Lucia non verrà con me. – rispose amaro – Non è un momento facile per noi. Soprattutto per lei. Ha dovuto sopportarmi nel periodo più buio della mia vita. E 68
dopo la botta, esce il livido –. In quel momento, AM ripensò alla frase di Francesca.
– Senti – riprese poi – non ti ho chiesto nulla. Come va l’università? Hai finito gli esami? Sei fidanzato? – Solo allora, AM si rese conto che non aveva mai parlato al padre di Francesca. Di nuovo, lo avvolse quel senso di tenerezza che lo aveva sorpreso davanti ai fornelli. Rimasero a parlare tre ore. Per il ragazzo era come se conoscesse suo padre per la prima volta. Quando si salutarono, il campanile batteva le quattro. Prima di scendere le scale, suo padre si girò – stai attento là fuori. Mi raccomando – e, appoggiata la mano al corrimano, se ne andò via. Sembrava un vecchio. AM chiuse la porta e, come nebbia, una malinconia insopportabile lo avvolse. Avrebbe voluto inseguire suo padre e abbracciarlo. Ma si trattenne. Nonostante la chiacchierata, non era ancora pronto per quel tipo di slancio. Si lasciò cadere sul divano esausto e, mentre componeva il numero di Francesca, accese una sigaretta. – Pronto! – esclamò la ragazza dopo il primo squillo – allora, ogni tanto mi pensi! – – Ciao piccolina, che combini? – – Combino che ti stavo per chiamare io. I miei genitori mi hanno chiesto di accompagnarli nella villa sul lago. Sono giù in strada che mi aspettano. Dicono che non stiamo mai insieme – – Forse si riferiscono a noi due, non a loro – commentò amaro AM. 69
– Dài… lo so. Hai ragione. E’ che non ce la facevo a dire no – – Scusa – sussurrò AM gentile – forse, sotto sotto, sono geloso del rapporto che hai con loro – – Ma cos’hai? Hai una voce triste – – E’ venuto a trovarmi mio padre – – Cosa? – esclamò Francesca – Raccontami tutto! – – No. I tuoi ti stanno aspettando. Ci sentiamo con calma questa sera. Volevo solo dirti che mi manchi – – Anche tu, pulcino – – Pulcino? – chiese AM ridendo. – Sì. Sei il mio piccolo pulcino biondo – – A ‘stasera matta – – Va beh, – concluse la ragazza – ti chiamo io, quando i miei sono a letto. Ciao – – Ciao – disse Am, e chiuse il cellulare spegnendo la sigaretta nel pacchetto vuoto. Senza pensarci, si ritrovò davanti all’armadio. Dal fondo, trasse fuori l’album fotografico della sua infanzia. Un regalo che sua madre gli aveva fatto per il diciottesimo compleanno. Lo pose con delicatezza sul letto e, sdraiatosi, iniziò a sfogliarlo. La prima fotografia ritraeva sua madre con il pancione. Era in piedi al centro di una piazza. Forse un paese dell’Alto Adige. Alle sue spalle, si intravedevano cime innevate. In un’altra, i suoi genitori sorridevano sereni sopra una panchina in un parco. L’immagine era piena di luce, come in un giorno d’estate. AM si chiese chi mai avesse fatto quello scatto, e che cosa 70
facesse in quel preciso momento, se era ancora vivo. Un pensiero triste, ma abbastanza comune davanti ad immagini del passato. Come sarebbe stata la sua vita senza quel maledetto incidente? E quella dei suoi? Avrebbero potuto continuare a vivere insieme. Anzi, sicuramente. Nessuna Lucia a consolare suo padre dopo sei mesi. Nessuna mansarda alla periferia di Milano. Nessun funerale. Solo la casa di una famiglia normale. Già. “Normale”. Un tempo AM odiava quell’aggettivo. Sinonimo di banale, piatto, amorfo, scialbo. “Normale” incarnava tutto ciò che detestava. La mancanza di interessi, curiosità, ambizioni. Adesso, invece, il suono di quella parola era dolce. E racchiudeva una speranza. Quella di riposarsi per un attimo. Se chiudeva gli occhi, poteva vedere l’aggettivo come una bolla di sapone. Leggera e profumata danzava lenta nella stanza. Dentro c’erano i suoi compagni d’asilo. Il volto della maestra. I panini rotondi, con il burro e il salame, disposti a piramide nei salotti delle feste. In un’altra foto, Annibale mostrava la lingua e scodinzolava. Quanti anni aveva, quando Annibale scomparve? Forse dieci. AM ritrovò intatto nel cuore il dolore per quel cane. Per settimane, aveva atteso il suo ritorno. Poi, comprese che Annibale non sarebbe più tornato. Scomparso all’improvviso. Come sua
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madre nell’incidente. E ancora sua madre al mare. Circondata da bambini e ombrelloni. Un mare grigio alle spalle come un presagio di morte. Eppure, in quel momento sorrideva. Dove era stata scattata? Forse sulla spiaggia di Varigotti. Di fianco a quelle case in stile messicano che, nei giorni di mareggiata, vengono lambite dalle onde. Finalmente una fotografia tutti e tre insieme. Felici e abbracciati su uno di quei calessi che ti fanno fare il giro turistico della città. AM se la portò alla bocca e la baciò. Troppo doloroso continuare. Ogni immagine un ricordo. Ogni ricordo una fitta. Stava per chiudere l’album, dopo aver sfogliato veloce le ultime pagine, quando una fotografia attrasse la sua attenzione. Dapprima una sensazione fastidiosa, come quando credi di aver visto qualcosa di spiacevole e ti arrabbi per averla immaginata. Poi, il dubbio che diventa paura. Infine, la certezza. Suo padre, a braccia conserte, davanti a via Lanterna
32. La tettoia con le teste dei demoni in pietra. Il citofono con le tre etichette. Illeggibili per la distanza. Cosa ci faceva suo padre in quel luogo? Chi aveva fatto la fotografia? AM si alzò di scatto e prese il cellulare. Una voce metallica ripeteva che l’utente non era al momento disponibile. Dove aveva detto di andare suo padre? In Russia. Sì. Russia. Ma quando doveva partire? Questo non l’aveva specificato. E anche se lo avesse fatto, 72
cosa poteva combinare AM? Presidiare l’aeroporto? E quale? Suo padre poteva partire anche da Roma. All’improvviso, il cellulare che teneva in mano squillò.
– Giù – disse una voce prima che AM potesse parlare. – Cosa? – – Giù in strada c’è un cestino. Prendi la busta. E’ attaccata all’esterno, sul fondo – e chiuse la comunicazione. – Ma vaffanculo! – urlò AM al cellulare – Vaffanculo tu e il cestino! – Iniziò a camminare per la casa e prese a calci tutto quello che gli capitava. Dopo lo sfogo, si sedette sul divano con la testa tra le mani. Non aveva pensieri. Solo una stanchezza immensa. Avrebbe voluto dormire e non svegliarsi più. Ma non poteva. Doveva solo ubbidire. Sì. Ubbidire. Per disperato senso di curiosità. Trovò la busta dove indicato e lesse il contenuto lì. Sul marciapiede. “ Firenze. Borgo Vatti, 27. Vladimir Hotel. Prendi il treno che parte dalla Stazione Centrale alle 8”. Non era scritto altro. Il retro del foglio riportava solamente la marca del produttore di carta: Conqueror. AM alzò gli occhi al cielo. Il grigio lo schiacciò a terra mentre le prime ombre della sera iniziavano a strisciare lungo i muri scalcinati. Le ultime gocce di una giornata piovosa gli colpirono il viso. Dopo la telefonata con Francesca, durante la quale si era sforzato di mantenere un tono tranquillo, se ne 73
andò a dormire pieno di angoscia. Dal suo letto, osservava la porzione di notte che offrivano le finestre. Un pallore confuso accarezzava il piumino bianco. Ad ogni secondo, si aspettava di vedere un volto scuro, là in alto. Temeva la presenza di qualcuno sopra i tetti. Quasi la percepiva. Ebbe un sonno agitato, come capita quando la febbre ti freme nelle ossa. Alle sei di mattina, si alzò più stanco di prima. Raggiunse la Stazione Centrale dieci minuti prima della partenza. Aveva acquistato i biglietti on line, da casa. Dopo la salita con le scale mobili, che sembrava non dovesse finire mai, si ritrovò ai binari. Le immense travi di ferro si arcuavano sopra la sua testa come uno scheletro gigante. AM si sentì come Pinocchio nel ventre della balena. Intorno, brulicavano persone attaccate a una valigia o a un cellulare. Il brusìo, amplificato dallo spazio, montava ad ogni passo. I volti si fusero in una sola massa nera. Per un attimo, AM provò le vertigini. Finalmente raggiunse il binario numero 7. Il suo treno attendeva tranquillo, incurante della confusione che lo circondava. Nel suo scompartimento erano già accomodate quattro persone. AM si sistemò nel posto prenotato vicino al finestrino. Rimaneva ancora un sedile vuoto. Proprio davanti a lui. E AM sperò tra sé che nessuno lo occupasse per meglio stendere i piedi durante il viaggio. Mentre i vagoni iniziavano a muoversi lentamente,
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non potè resistere alla tentazione di guardare fuori, fingendo che fosse la stazione a spostarsi. Una piccola mania che si portava dietro fin da bambino. Ora, riusciva a vedere le strade di Milano: brevi scorci di traffico e pedoni impastati di grigio. Provò una fitta dolorosa, più mentale che fisica. Tornato con lo sguardo dentro allo scompartimento, iniziò ad osservare i suoi compagni di viaggio. I due posti all’entrata erano occupati da una madre con il figlio, un ragazzino di circa dodici anni che armeggiava con un video gioco, fortunatamente senza suono. Era grasso, quasi obeso e, ogni volta che un passaggio particolarmente difficile lo impegnava, gonfiava in modo buffo le guance. La donna stava leggendo una copia di Gente. Indossava una gonna che lasciava scoperta gran parte delle gambe. Volgare, ma attraente. Anzi, attraente perché volgare, decise AM, notando la notevole differenza tra lei e il figlio. Accanto a loro, due coniugi anziani. Almeno, sembrava una coppia sposata. Gli unici elementi che li univano erano la fede al dito e l’età avanzata. Per il resto, non si scambiavano né uno sguardo né una parola. Forse proprio per questo, erano sicuramente sposati. AM decise che tutti quei tipi non corrispondevano all’immagine che si era fatta delle persone coinvolte nella sua avventura. Non potevano appartenere a “loro”. Oppure, forse, proprio per l’apparente innocuità erano insospettabili. Anche il bambino con le guance paffute? Sì. Anche lui. E, involontariamente, AM annuì a se
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stesso con la testa. La donna lo guardò con la coda dell’occhio. Basta. Stava esagerando. Davanti a lui c’erano ancora tre ore abbondanti di viaggio. Decise di sfruttarle per una dormita. Allungò le gambe, si mise a braccia conserte, e chiuse gli occhi. Il movimento del treno lo cullava con dolcezza. Anche i sussurri dello scompartimento e le voci attutite del corridoio conciliavano il sonno. – Chiedo scusa… – AM spalancò gli occhi. Un ometto barbuto con una borsa di cuoio tentava di raggiungere il posto libero. Sembrava un piccolo Freud. AM si ricompose per farlo accomodare. Quanto aveva dormito? Sicuramente quasi un’ora. Perché il treno, adesso, era fermo alla stazione di Piacenza. L’uomo si sedette davanti a lui, sul bordo della pol-trona, tenendo tra le braccia la borsa. Sembrava che volesse scendere da un momento all’altro. Ecco, quello incarnava benissimo il modello di nemico che AM aveva in mente. Poi, il treno riprese la sua corsa e tutto tornò come prima. I bisbigli, le voci nel corridoio. E AM si appisolò nuovamente. Uno scossone improvviso, lo destò dal suo torpore. Uno di quei movimenti che il treno ti riserva quando si accorge che sei troppo comodo. Nello scompartimento, inspiegabilmente, erano rimasti in due.
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AM notò che il piccolo Freud stava leggendo un libro e, dopo l’iniziale stordimento del risveglio, lesse il titolo stampato in caratteri bianchi sulla copertina nera: “La persona che trovò un libro per strada”. Strana coincidenza. Anzi, non poteva essere una coincidenza. Chi era quell’uomo? Un guardiano inviato per osservare i suoi movimenti? O forse era possibile che esistesse un libro con quel titolo, senza alcuna connessione con il progetto di AM? E dove si erano cacciati gli altri passeggeri dello scompartimento? Potevano essere davvero complici? Persone scritturate per farlo impazzire? Intanto, l’uomo mostrava di non accorgersi dell’interesse suscitato in quel ragazzo seduto davanti a lui. Con gli occhiali sulla punta del naso, voltava le pagine, dopo aver leccato la punta dell’indice. Ogni tanto, sorrideva. E AM era sicuro che lo facesse per innervosirlo, e non certo per l’ironia della trama. Alla fine si decise.
– E’ interessante il suo libro? – domandò a bruciapelo. L’ometto lo guardò senza sorpresa. Il viso immobile in un’espressione severa. Non rispose una parola. E con lentezza posò di nuovo lo sguardo sulle pagine. – Non ride più? – chiese ancora AM – Non lo trova più divertente? E i suoi compagni che fanno? Stanno confessando qualche peccatore? Magari nel santuario di Metul? – L’ometto non si scompose e continuò a leggere. – Non rispondi, eh? – continuò AM – Beh, non importa. Ho un messaggio che non vuole risposta. Sei pron77
to? Bene, il messaggio è: vaffanculo. Sì, sì. Continua a far finta di niente. Ma io ti dico: vaffanculo. Mi raccomando, però. Questo messaggio non è solo per te. Non essere egoista. Riferiscilo anche ai padroni. Ora te lo scandisco: vaf–fan–cu–lo. Hai paura di dimenticarlo? – e tirò fuori una penna e un moleskine dal suo borsello Eastpak – Ecco, te lo scrivo pure – e strappato il foglietto, glielo ficcò nel taschino della giacca. Dopo lo sfogo, AM si alzò in piedi e andò a sedersi su uno dei sedili estraibili del corridoio. Si accese una sigaretta e, nonostante le proteste degli altri viaggiatori, riuscì a fumarla fino in fondo. Il treno giunse alla stazione di Bologna puntuale. AM guardò lungo la banchina per scoprire se il piccolo Freud fosse sceso. All’improvviso, se lo ritrovò davanti, oltre il finestrino. Con un cenno della mano, invitò AM ad affacciarsi.
– La risposta alla sua prima domanda è sì. Ma dipende per chi – disse l’uomo con una voce identica al suo aspetto. – Per esempio per me – lo incalzò AM. – Chi non sta alle regole del gioco viene eliminato – – E’ una minaccia? – – Come si dice nei film, in un momento simile? Ah, sì: non è una minaccia, ma un avvertimento. D’altronde, il luogo in cui ci troviamo in questo momento dovrebbe insegnarle qualcosa –. Il treno iniziò a muoversi e davanti agli occhi di AM sfilò il cartello “stazione di Bologna”. Quando volse di nuovo lo sguardo verso il punto della 78
banchina dove si erano parlati, l’ometto si era ormai defilato, scomparso tra la folla. Il treno arrivò a S. Maria Novella in perfetto orario. AM raggiunse subito il parcheggio dei taxi.
– Vladimir Hotel, Borgo Vatti 27 – specificò, accomodandosi sul sedile posteriore di una Fiat Multipla. A Firenze, il cielo era sereno. Le persone per strada camminavano con una lentezza inconcepibile a Milano. Sicuramente perché la maggior parte di esse era lì in vacanza. Dopo un breve tratto, l’autista ruppe il silenzio dell’abitacolo – Ci ho fatto il battesimo di mia figlia al Vladimir… – AM accolse volentieri quell’invito a conversare. Aveva voglia di distrarsi per un po’, e la faccia del suo interlocutore, riflessa nello specchietto retrovisore, sembrava gentile. Più che altro aveva voglia di ascoltare. – E’ bello? – chiese, avvicinandosi alle sue spalle. – Sì. Molto. Si trova nel centro storico. Pensi che una parte è stata costruita prima del 1300 e… – contatto avvenuto, AM poteva rilassarsi fino a destinazione – … e pare che all’inizio sia stato un luogo di meditazione, di preghiera. Non tutti i fiorentini sanno, per esempio, che ospitò il Patriarca di Costantinopoli in occasione del Concilio Ecumenico, il solo nella storia che si è svolto a Firenze – – E chi sono gli attuali proprietari? – lo interruppe AM. – La Famiglia Valesi, discendenti dello scultore Federico Valesi. Lo conosce? – 79
– A dire il vero no – si scusò AM – Beh, un artista molto interessante – riprese il tassista, attraversando guardingo un incrocio – tutte le sculture e i disegni nell’albergo sono opera sua. Se poi ha due minuti da buttare, si faccia un aperitivo al bar – – Li fanno bene? – – Questo non lo so. E’ il bancone che merita, lo hanno ricavato da un antico confessionale del 1500 – – Un confessionale… – ripeté AM, più a se stesso che all’uomo. – Esatto. Anche il banco vicino alla scala. Insomma, è proprio un posto interessante. – L’automobile girò in una via breve e stretta. – Eccoci arrivati – disse il tassista, fermandosi davanti all’ingresso del Vladimir – fanno dieci euro, le serve la ricevuta? – – No – rispose AM, porgendogli i soldi – non sono qui per lavoro – – Beato lei. Allora buon divertimento e arrivederci –. AM entrò nella hall dal soffitto a cassettoni, ornato da un magnifico lampadario in ferro battuto. Lo spazio era modulato da tre archi sospinti da colonne in stile corinzio. Si respirava un lusso antico e malinconico, quasi sussurrato. – Buongiorno signore, – lo accolse il concierge – ecco la sua busta–. Per qualche istante, AM rimase perplesso davanti all’uomo che gli porgeva il plico. – Ma come fa a sapere che è per me? – chiese infine. – E’ allegata una sua foto – spiegò il portiere – per evi80
tare il rischio di consegnarla alla persona sbagliata – – Ma chi l’ha portata qui? –
– Un vùcumprà – rispose il portiere, riponendo la chiave di una camera nel quadro di legno alle sue spalle – Sì, insomma, un venditore ambulante – – Sono i fattorini migliori – sussurrò AM – Come dice? – – Niente. Riflettevo ad alta voce. Scusi, ma è una cosa normale? – – Riflettere ad alta voce? – – Ma no! – esclamò dal cuore AM, guardando l’interlocutore con curiosa disapprovazione – Dico, è nor-male che un vùcumprà lasci un plico in un hotel? – – Beh, guardi – rispose l’uomo, incrociando le braccia sul bancone – io faccio questo mestiere da dieci anni, e questa, forse, è la cosa più normale che mi è capitata. Un hotel è un animale strano–. Il telefono squillò. – Chiedo scusa – disse il concierge, alzando la cornetta – Vladimir Hotel, buongiorno sono Edoardo–. Mentre rispondeva, AM gli chiese con un cenno se poteva accomodarsi nella hall. Edoardo, con un ampio gesto del braccio, fece capire che lo spazio era a sua disposizione. Una volta comodo, sopra una delle poltrone in velluto rosso della sala, tirò fuori dalla busta il materiale. Con una rapida occhiata, comprese che era la solita roba. Un piccolo post–it, attaccato al fascicolo, avvertiva: “penultimo contatto”. Decise che avrebbe letto qualcosa più tardi. Non gli andava di farlo lì. Voleva 81
trovarsi in uno spazio chiuso, meno esposto. Durante l’andata, si era immaginato uno sviluppo più articolato della storia. La velocità con cui si era risolta la questione lo aveva spiazzato. Perché lo avevano costretto a un viaggio fino a Firenze per ritirare una busta? Forse il motivo era semplice, e già aveva avuto modo di pensarlo in precedenza, volevano studiare i suoi movimenti. Essere sicuri, insomma, che svolgesse il compito secondo le indicazioni. In quel preciso momento, AM comprese che cosa passa nella mente di una cavia da laboratorio. Prima di tornare alla stazione, decise di seguire il consiglio del tassista e raggiunse il bancone del bar. Il cameriere sembrava uscito da un film muto. Indossava una divisa elegante di colore grigio. Il bar era collocato in penombra. Solo un bagliore lontano proveniva dalle ampie vetrate affacciate sul chiostro interno del Vladimir. AM ordinò un daiquiri al limone e approfittò delle tar-tine esposte sopra un vassoio di argento. Appollaiato sullo sgabello, rimase a osservare i gesti sapienti del cameriere. In quei movimenti, però, appariva anche la noia della quotidianità. Come una danza imparata a memoria. Senza gioia. Quell’uomo era un giocoliere che si esibiva nella penombra della vita, come il bar nella hall di un hotel, senza più interesse per il proprio pubblico. AM fu invaso dalla malinconia del giorno precedente. Il cameriere poteva avere la stessa età di suo padre. Adesso, desiderava solo alzarsi e andare via. Lasciò
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cinque euro di mancia e si diresse verso l’uscita. Edoardo era ancora al telefono. AM gli passò davanti senza salutarlo. Una volta in strada, l’alcol iniziò a stordirlo con dolcezza. Alla stazione di S. Maria Novella, ci arrivò a piedi. Il primo treno per Milano sarebbe partito dopo un’ora. Attese seduto sopra una panchina di pietra lungo la banchina. La temperatura era discretamente gradevole. E, nonostante il pomeriggio inoltrato di fine autunno, il cielo offriva ancora un azzurro intenso. AM continuò a fumare per tutto il tempo, pensando alla fotografia di suo padre. Tentò più volte di mettersi in contatto con lui, ma il cellulare risultava sempre spento. Una volta a bordo, si accomodò vicino al finestrino. Non c’erano scompartimenti, ma file di poltroncine come sugli autobus. Fuori sfilavano veloci scorci di paesaggio. Tagliati bruscamente dal nero dei tunnel. Perché suo padre si trovava davanti al numero 32 di via Lanterna? Era stato coinvolto, come AM, in un’avventura simile? Se sì, che cosa gli avevano chiesto di fare? E sua madre era a conoscenza della storia? All’improvviso, un pensiero atroce gli spaccò la testa: l’incidente in cui lei morì era in qualche modo collegato all’attività di suo padre. Assurdo? Più ci rifletteva e più gli sembrava plausibile. Anzi, “normale”. Ecco perché suo padre era tormentato dal senso di colpa. Ecco perché, dopo anni di
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rimorso, aveva sentito la necessità di incontrare suo figlio. Forse, quel pomeriggio in mansarda, avrebbe voluto raccontare ogni cosa, ma era riuscito solo a chiedere scusa, senza confessare la colpa. Sì. Ma quale colpa? Anche lui, AM, si trovava sopra un treno perché gli era stato ordinato. E non aveva mai detto nulla a Francesca. Da questo punto di vista, si sentiva molto vicino a suo padre. Un altro pensiero lo scosse: l’equazione AM–padre ne apriva una seconda, e cioè, Francesca–sua madre. La seconda equazione si era risolta con una morte. Non era più un gioco. AM stava rischiando di rovinare la propria vita e quella della persona che amava. Una vampata al petto gli tolse il respiro. Fuori intanto si era fatto buio, punteggiato solo dalle luci delle case. I finestrini iniziarono ad appannarsi. Nell’aria, si sentiva già odore di Milano. Finalmente, il treno entrò lento alla Stazione Centrale. Prima di uscire, AM attese che tutti i passeggeri scendessero. Sulla banchina fu travolto dalla confusione e dagli annunci metallici dell’altoparlante. Davanti al parcheggio dei taxi, come al solito, si era formata una coda allucinante. Loschi figuri camminavano in giro senza meta. Alcuni tossici barcollavano, chiedendo qualche spicciolo. Nell’aria, odore di vomito e piscio. Parole oscure e dure, come le facce da cui provenivano, procuravano un dolore quasi fisico alle orecchie.
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AM scese in metropolitana e iniziò il suo secondo viaggio di ritorno verso casa. Mentre attendeva i vari mezzi, lesse un po’ il materiale ricevuto a Firenze.
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QUARTO MESSAGGIO
Ritorniamo a te. Te che hai trovato questo libro per strada. Forse la trama ha confuso un po’ le acque. La nostra voglia di romanzare ti ha distratto. Il nostro obiettivo sei tu. E le altre 665 persone che oggi hanno raccolto il libro. Siamo sinceri: non tutti saranno arrivati fino a questa pagina. Ma tu che stai leggendo, sì. Ancora un ultimo sforzo, e queste parole ti saranno chiare. C’è un filo che collega le persone coinvolte. Non tutte. Ma solo quelle che vorranno vedere la fine del gioco. Dipende da te. Possiamo solo dirti che la scelta è tua. Tu sei il solo responsabile delle tue azioni. Il filtro creato con questa operazione garantisce la complicità del gruppo finale. La domanda è la seguente: questo messaggio è solo un passaggio del telaio per fare una trama oppure è vero? Noi ti diciamo che è vero. Ma, giustamente, diffidi. Sorridi. Sotto sotto, però, non ne sei certo. Sii sincero: continui a leggere, ma una vocina ti sussurra che potrebbe essere tutto vero. Reale. La doppia lettura di questo messaggio non risolve il problema.
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Potrebbe inserirsi perfettamente nella trama sin qui narrata. Fa parte, infatti, del materiale che deve esse-re assemblato. Ma potrebbe essere anche una “comunicazione di servizio”. Una voce fuori scena che ti dice: “è tutto vero, se non ci credi, prova a leggere sino in fondo”. Un piccolo contributo alla tua riflessione: che cos’hai da perdere a leggerlo tutto? Niente. Anzi, potrai soddisfare la giusta curiosità e sapere come la storia finisce (oppure come la storia inizia, se è vero quello che diciamo). Noi siamo dei benefattori. E oggi abbiamo voluto regalare un’emozione. Non nascondiamo una certa pericolosità. Ma le emozioni, anche se offerte gratuitamente, vanno conquistate. Allora, ci stai oppure no? Se volti questa pagina, vuol dire che hai deciso.
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LA DECISIONE
Come ogni lunedì, Francesca aprì per prima l’agenzia di viaggi in cui lavorava. Accese la macchina del caffè e, nell’attesa che fosse pronta, distese il Corriere della Sera sopra la scrivania e iniziò a leggere.
– Buongiorno–. Alzò spaventata lo sguardo dal giornale. Quell’uomo era entrato senza il minimo rumore. Era un omino con il pizzetto grigio. Un paio di occhiali, con la montatura rotonda, proprio sulla punta del naso. Sembrava un piccolo Freud. – Buongiorno a lei, mi ha spaventata – disse Francesca, chiudendo il giornale. – Chiedo scusa, signorina, non era mia intenzione – rispose l’omino e, con un cenno della mano, chiese di accomodarsi sulla sedia davanti alla scrivania. Quando si trovarono faccia a faccia, Francesca notò che la pelle dell’uomo era leggermente butterata. La spiacevole scoperta era compensata da un gradevole profumo di dopobarba. – In cosa posso aiutarla? – – Beh, – iniziò l’omino – credo proprio che per oggi sarò io ad aiutare lei –. Davanti al volto perplesso della ragazza, e dopo una breve pausa da attore consumato, l’omino riprese – lei ha una relazione da qualche anno con un laureando in Lettere Classiche – – E allora? –. Francesca iniziava ad essere indispetti88
ta. Anche con le amiche non tollerava intrusioni nella sua sfera personale, figuriamoci con uno sconosciuto!
– E allora – ripeté il suo interlocutore senza accogliere la sfumatura aggressiva – dovrebbe stare molto attenta alle sue frequentazioni – – “Sue” di chi? – – Del suo fidanzato, signorina. Si rilassi. Non ho cattive intenzioni. Voglio solo terminare la mia ambasciata e lasciarla al suo lavoro – – E va bene. Ma si sbrighi – tagliò corto Francesca. – Dico ambasciata – continuò il piccolo Freud – perché sono stato incaricato da altri. Insomma, non vorrei che lei pensasse a un mio coinvolgimento persona-le nel messaggio – – Ma si figuri, proceda pure – rispose con tono ironico la ragazza. Con un gesto rapidissimo, l’omino le piantò in fronte un’accetta, estratta dalla giacca.. Francesca rimase come perplessa. Per un istante immobile. Poi cadde lentamente in avanti. Al contatto con il piano della scrivania, l’accetta si conficcò ancor più nella testa. AM spalancò gli occhi: ancora un maledetto incubo. La radiosveglia sul comodino segnava le 11 a.m. di domenica. Dopo una doccia, e una breve conversazione con Francesca, AM bevve un semplice caffè. Aveva lo stomaco chiuso e il solo pensiero di masticare qualcosa gli procurava la nausea. Il cellulare di suo padre non rispondeva. La novità era 89
che adesso la voce metallica si esprimeva in russo. Una volta per strada, si mise a tracolla il suo Eastpak e si diresse a piedi verso la città. Alle sue spalle, il car-cere di Opera rendeva il paesaggio ancora più triste. Si era svegliato con il desiderio di andare al cinema per distrarsi un po’. Aveva spesso l’abitudine di chiudersi in una sala durante gli spettacoli del pomeriggio. Raggiunse il Perseo di via Collina verso le 14 e 30, poco prima che il film iniziasse. Si trattava di una pellicola d’essai che AM amava molto: “i tre giorni del condor” con Robert Redford. In qualche modo, notava alcune analogie con il protagonista. Anche lui alle prese con nemici senza volto. La forte curiosità dell’inizio si era ormai trasformata in paura. Il nuovo incubo non gli dava pace e rivedeva il volto perplesso della sua ragazza con un’accetta conficcata dentro la fronte. Quando entrò nella sala, si stavano per spegnere le luci. Ebbe solo il tempo di notare che gli spettatori non superavano la ventina. Si sedette nelle prime file. Mentre sullo schermo Robert Redford andava a prendere il pranzo per sé ed i suoi colleghi, notò qualche ombra muoversi alle sue spalle. Forse, un ritardatario. Almeno questo voleva pensare AM. La trama scorreva veloce e intrigante. I movimenti in sala continuavano. AM era immobilizzato dalla paura. Non riusciva a girarsi per intuire qualcosa nella penombra. Come da piccolo, preferiva trovare riparo sotto le coperte piuttosto che affrontare la stanza. All’improvviso, si accesero le luci. Il primo tempo era
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terminato. La sala era completamente vuota. Solo un uomo vestito di nero stazionava a braccia conserte vicino alle tende pesanti dell’ingresso. Indossava un impermeabile di cuoio e un cappello a larghe falde che gli nascondeva il viso. Dove erano finiti gli altri spettatori? Anche sul treno si era verificata la stessa cosa. E che cosa doveva fare?
– Chi è lei? – domandò ad alta voce rivolto alla figura nera. L’uomo iniziò a procedere con lentezza lungo il corridoio centrale. Adesso aveva una mano infilata sotto l’impermeabile. Giunto a metà, e con lo sguardo verso il basso, gettò fuori, con un gesto improvviso, la testa di un gatto che rotolò sin quasi ai piedi di AM. Il ragazzo scattò in piedi e raggiunse l’uscita di emergenza sulla sua sinistra. La figura nera iniziò a ridere. Non sembrava un suono umano. Sembrava piuttosto una risata registrata sopra un nastro velocizzato. Una volta in strada, AM si mise a correre. Il cuore gli picchiava il petto. E il fiato azzurro sbuffava dalla sua bocca quasi senza soluzione di continuità. Dopo cinque minuti, decise di fermarsi. La strada dove adesso si trovava era abbastanza frequentata. Si voltò. Nessuna figura nera lo stava inseguendo. AM maledisse la sua paura. Avrebbe dovuto affrontare quell’individuo, ma gli era mancato il coraggio. Si sedette sopra una panchina e, nonostante il fiatone, accese una sigaretta. 91
Non si sentiva tranquillo in quel luogo. E allora decise di camminare senza meta. Attraversò con il rosso un incrocio, e neppure le urla di un automobilista riuscirono a scuoterlo dalla sua trance. La sua testa, tutto il suo corpo, appartenevano alla paura. Era questo il suo destino? Come il padre era condannato a una continua fuga? Tormentato dai rimorsi anche durante la notte. Neppure il sonno gli offriva scampo. L’unica persona con cui avrebbe voluto sfogarsi era morta. Forse il sogno, anzi, l’incubo di sua madre era un tentativo di metterlo in guardia. Un avvertimento a non spingersi oltre. Francesca e il volto sfigurato della madre. Un’analogia, no, un’equazione che si risolveva solo con la morte. E che cosa avrebbe fatto, se avessero ucciso la sua ragazza? Che tipo di uomo sarebbe diventato? Quale vita? Rispetto a sua padre, però, aveva un vantaggio: niente figli. Nessun figlio da abbracciare o al quale chiedere scusa per colpe oscure. Sai che consolazione! Sin dal primo contatto, AM non aveva fatto altro che ubbidire. Prima per curiosità. Adesso per paura. Quanto valeva tutto questo? Almeno questa domanda aveva una risposta precisa: 250 mila euro. Era il prezzo dell’angoscia. Un’angoscia che lo avrebbe seguito ogni istante della sua giornata. Per sempre. Ne valeva la pena? No. Adesso, non più.
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Per la prima volta, AM vide una scappatoia. Come l’uscita di emergenza nel cinema. Poteva smettere di ubbidire. Uscire dal gioco. Rinunciare ai soldi e riprendersi la sua “normalità”. Lo avrebbero permesso? Le minacce del piccolo Freud e la testa del gatto gli rispondevano no. Qual era dunque l’alternativa? Continuare a vivere nel terrore? No. In quel pomeriggio di fine autunno, mentre la nebbia scendeva sulla città, AM decise che qualunque conseguenza della sua decisione sarebbe stata meglio di una vita nella paura. Attraversò un cancello in ferro battuto e si mise a correre lungo i viali dei giardini di Porta Venezia. Voleva sfinirsi. Non sentire più il proprio corpo. Diventare solo anima e cancellarsi nella nebbia tra gli scheletri degli alberi. Poi, si accasciò di nuovo sopra una panchina. I radi passanti, come i piccioni, zampettavano indifferenti davanti a lui. Rimase immobile per un paio d’ore, continuando ad avvitarsi intorno agli stessi pensieri. Infine, si decise. Via Lanterna si trovava dall’altra parte dei giardini. Raggiunse il numero 32 verso le 22,30. Verso quell’ora, il traffico era pressoché inesistente. AM digitò al citofono la sequenza “terra, fuoco, vento, vento, fuoco, terra”.
– Sì? – rispose una voce 93
– Mi tolgo dal gioco – sussurrò AM – potete riprendervi i soldi. Non ho toccato neppure un euro. Non contattatemi più. Rivoglio la mia vita. Non ne ho parlato con anima viva e non ho intenzione di farlo. D’altronde, avete tutti gli strumenti per verificare che non dico bugie. Addio – . Attese l’autobus per circa un’ora. Una volta a bordo, si accorse di essere l’unico passeggero. Ma la paura di prima si era dissolta. Finalmente si sentiva leggero. 94
IL WEEK–END
Nell’aria c’era già Natale. E AM non lo sopportava. Tutte le cose che una persona ama di questo periodo, lui le detestava. Le prime luminarie abbellivano C.so Buenos Aires. Forse, l’unica strada di Milano dove il Natale appare per primo e se ne va per ultimo. Per mano a Francesca, passeggiava tra la folla. Ad ogni angolo, un venditore ambulante di castagne e il fumo azzurro che saliva dal braciere. Per la ressa era impossibile sostare davanti alle vetrine. Bisognava solo lasciarsi trascinare dalla corrente senza perdere la presa. Eppure, talvolta, la sua mano si staccava da quella della ragazza. Per qualche metro, la vedeva camminare sola. Un attimo di sospensione, poi ecco di nuovo il contatto fisico. Erano trascorse un paio di settimane dalla sua decisione e nulla di particolare aveva turbato le giornate. Nessun contatto. Nessuna stranezza che potesse ricollegarsi a tutta la vicenda. Insomma, sembrava che “loro” avessero deciso di lasciarlo in pace. Mentre camminava, AM non aveva perso l’abitudine di girarsi per vedere se qualcuno lo stesse seguendo. Una pic-cola mania che Francesca iniziava a notare. Ci voleva tempo per abituarsi alla normalità, questo AM lo sapeva molto bene. Occorreva disciplina e, quindi, forza di volontà. Si era ripromesso di non rivelare mai alla sua ragazza quanto accaduto nei giorni passati. Per due motivi: innanzitutto non coinvolgerla, e adesso più di
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prima non avrebbe avuto senso, e poi per evitare in futuro di ricadere sull’argomento. Quella sera cenarono in una trattoria toscana di via Val Tidone. Un locale dolce e accogliente, disposto su due livelli. Il loro tavolo si trovava in alto, sopra un soppalco dal quale si poteva osservare tutta la sala. Francesca continuava a parlare. L’esito delle analisi di suo padre, fortunatamente negativo. Il desiderio della madre di lasciare Milano e trasferirsi nella villa sul lago. E poi l’ambizione di aprire un’agenzia di viaggi tutta sua. Avrebbero potuto lavorare insieme. Certo, la laurea in Lettere Classiche non c’entrava molto, ma visto il periodo, non si poteva andare troppo per il sot-tile. Nell’attesa dell’antipasto, AM osservava il volto di Francesca, le sue espressioni, il modo fantastico di socchiudere gli occhi e muovere le mani. Amava ascoltarla. E amava le sue parole.
– L’agenzia di viaggio si potrebbe chiamare Magellano. L’unico esploratore che sapeva esattamente cosa cercare, non come Cristoforo Colombo che fin quasi alla morte rimase convinto di aver scoperto le Indie. Ma mi ascolti? – No. AM non la stava più seguendo. Il suo sguardo si era posato su un cliente. Indossava un soprabito di cuoio e un cappello a larghe falde. Era giù in sala, davanti al bancone del bar e stava parlando con il proprietario. – Ma cosa c’è? – gli chiese Francesca. Senza rispondere, AM si alzò dal tavolo e scese in 96
sala. Ora si trovava faccia a faccia con quell’uomo.
– Desidera qualcosa? – domandò quello stupito. – Sì! – rispose secco AM – Desidero sapere il tuo nome – – E perché?– – Perché altrimenti chiamo la polizia. Qualche tempo fa, tu mi hai aggredito in un cinema – – Senta… – – Senta un cazzo. Dimmi come ti chiami – e gli afferrò la gola con la mano. – Ehi, ehi – intervenne il proprietario – calma. O la polizia la chiamo io sul serio. Poi, rivolto ad AM – il signore è mio cugino. Si chiama Vincenzo Pasteri. Contento? –. Mentre quello parlava, AM notò che l’uomo con l’impermeabile non aveva un braccio. La manica vuota era inserita nella tasca. Che stupido! Ma perché non se ne era accorto prima? Non poteva certo essere lui la persona del cinema. – Io… – balbettò – ecco, mi sono sbagliato. Chiedo scusa, è che… – – Facciamo così – tagliò corto il proprietario – lei ora raggiunge la sua fidanzata, prende il cappotto, e se ne va fuori dai coglioni –. Francesca aveva assistito alla scena dalla balaustra. E anche a tutti i dialoghi, come d’altronde gli altri avventori. Scese con i cappotti e uscì dal locale. – Non mi sono mai vergognata così tanto – esclamò con la voce rotta dal pianto, quando AM la raggiunse in strada – ma si può sapere cosa ti sta succedendo? 97
Chi ti ha aggredito in un cinema? Quando? –. AM non seppe cosa rispondere e per due lunghi minuti camminarono in silenzio.
– Senti – disse infine – il prossimo week–end mi piacerebbe andare al mare. E’ da tempo che non trascorriamo qualche giorno insieme. Cosa dici? Forse con calma cercherò di spiegarti cosa mi sta succedendo–. Francesca annuì tra le lacrime e AM la abbracciò. – E poi, domani mi consegnano la macchina che ho pagato con i soldi di mio padre – concluse AM. Sul viso della ragazza spuntò un timido sorriso.Poco distante, un’ombra in un portone aveva ascoltato tutto. La macchina era una vecchia Clio color grigio. AM non toccava un volante da quattro anni. Quel giorno partirono verso le 7 di mattina. L’orario migliore per vedere il peggio di Milano. Imboccarono l’autostrada per Genova verso le 7,10. L’asfalto si fondeva con il grigio del cielo. Una sottile foschia si sfaldava al passaggio dell’automobile. Nonostante l’inizio del week–end, il traffico era scar-so. D’altronde, “il mare d’inverno è un concetto che la mente non considera”, come cantava adesso dall’autoradio Enrico Ruggeri. Francesca si era accovacciata sul sedile e osservava sfrecciare il paesaggio alla sua destra. Le ultime lebbre della periferia. Poi la pianura. AM provò un intenso “deja vu” e il suo pensiero corse
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al sogno della madre. Aveva deciso di recarsi proprio al Colle del Melogno per esorcizzare definitivamente la sua paura.
– A cosa pensi? – le chiese come nel sogno. – Penso che tu mi debba dire che cosa sta succedendo – – Ti dirò che cosa mi è successo. Adesso è tutto tranquillo – rispose AM, gettando un’occhiata allo specchietto retrovisore. – E cosa aspetti? – – Non mi va di parlarne mentre guido. Aspettiamo di essere nel bosco del Melogno – – Certo che potevamo andare a Porto Fino! – brontolò Francesca. – Te lo chiedo come favore, dài – chiuse il discorso AM. Ora, iniziavano a salire sul passo del Turchino. AM non ricordava una giornata senza pioggia da quelle parti e, mentre cambiava la marcia, si domandò se esistesse gente felice dentro alle case isolate che punteggiavano i fianchi delle colline. Si fermarono per un caffè in un autogrill. Dentro al bar, c’erano solo camionisti. Alcuni bevevano una grappa. E l’odore del loro alito si spanciava molle nello spazio. Quando si immisero di nuovo nell’autostrada non erano soli. Una Honda Civic scura aveva iniziato a seguirli. Ma AM non se ne accorse perché quell’auto manteneva una notevole distanza. Era uno dei tanti 99
puntini dentro allo specchietto retrovisore. Finalmente, iniziarono a scendere dal passo del Turchino e, dopo qualche chilometro, improvviso dietro a una curva, il mare. I due ragazzi, senza comunicarla, provarono la stessa sensazione fisica: il rilassamento degli occhi. Quella piacevole distensione davanti a un paesaggio senza ostacoli. Impossibile da provare per le strade di città, dove lo sguardo viene sempre bloccato da una parete di cemento. L’unico rimedio è alzare gli occhi al cielo. Cielo e mare, pensava AM, si assomigliano anche per questo. Ma c’è un elemento comune ancora più forte. Rappresentano infatti i luoghi dell’altrove. Spazi innaturali per l’uomo, ma ad esso legati in modo intimo. Luoghi di fuga mentale. Per alcuni anche fisica. Adesso la radio proponeva “in the air tonight” di Phil Collins. Prima di raggiungere il colle del Melogno, decisero di fare una passeggiata sulla spiaggia di Varigotti. Parcheggiata la macchina sul bordo dell’Aurelia, raggiunsero la spiaggia attraverso un vicolo scrostato dalla salsedine. Si tolsero le scarpe e iniziarono a camminare a piedi nudi lungo la battigia, incuranti del freddo. AM notò una delle case in stile messicano. Sul muretto del piccolo cortile sonnecchiava un gatto pezzato. Una malinconia immensa lo avvolse: proprio lì era stata scattata la foto a sua madre. Circondata da ombrelloni e bambini e un mare grigio alle spalle
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come un presagio di morte. Iniziò a piangere in modo sommesso e Francesca, per delicatezza, non disse nulla. Infine, si sedettero a cavalcioni sul molo. Erano soli. Da qualche minuto, si era alzato un vento feroce che copriva tutti gli altri rumori. AM ne fu contento. Si sentiva in qualche modo protetto e poteva prolungare il suo silenzio. Non aveva voglia di parlare. Francesca, intanto, lanciava qualche briciola di pane a un paio di uccellini che avevano trovato il coraggio di zampettare lì vicino. Oltre le prime onde, laggiù, i gabbiani planavano, emettendo striduli versi come lamenti.
– Andiamo – disse infine AM. Adesso si sentiva pronto ad affrontare la sua ultima paura. Raggiunta Finale Ligure, svoltarono a destra verso l’entroterra e iniziarono a salire. Come nel sogno, AM rivedeva pastori dalle bocche rotte che accompagnavano il passo dei muli. Vecchiette curve, come bastoni secchi, sotto gerle colme di fieno. Alcuni cani latravano al passaggio dell’automobile. Ed ecco la breve galleria in pietra che bucava l’antica fortezza napoleonica. Vera porta d’ingresso al Colle del Melogno. AM parcheggiò l’auto nell’ampio spiazzo davanti a una trattoria chiusa per l’inverno. Entrarono nel bosco. I faggi salivano al cielo. Immensi. Davano le vertigini. Il silenzio era interrotto dal fruscìo regolare dei 101
loro passi tra le foglie.
– Guarda – Francesca si era attardata vicino a un cespuglio. AM si voltò e la vide con un piccolo mazzo di fiori in mano. Sorridente. In quel momento, alcune ombre si muovevano dietro ai tronchi. Si inoltrarono ancora nel bosco. La strada sterrata sembrava senza fine. AM riprese il cammino da solo. Qualche passo per far comprendere con gentilezza a Francesca che non aveva voglia di fermarsi ad ogni cespuglio. Poi si fermò anche lui. Trasse un respiro profondo con lo sguardo in avanti. – Ora ti racconto tutto – e si girò verso la ragazza. Si guardarono negli occhi. Francesca teneva in pugno una pistola. AM rimase impietrito. Dentro però aveva il fuoco del-l’inferno. – Sei senza parole, amore mio. Lo capisco – gli disse Francesca con il tono allegro di sempre. In quel momento, AM comprese tutto. In una frazione di secondo, ripercorse il senso della storia. Pensieri scollegati, ma chiari. Francesca apriva la bocca. Forse stava parlando, ma AM non sentiva. Solo i suoi pensieri, adesso, erano importanti. L’equazione giusta era AM–madre e Francesca–suo padre. Finalmente poteva vedere come era morta sua madre. Eccoli in macchina. Durante il tragitto, senza farsi 102
accorgere, suo padre le sgancia la cintura di sicurezza, approfittando di un attimo di stanchezza, così naturale nel corso di un lungo viaggio. Suo padre adesso sterza e la macchina finisce contro il muro di un cavalcavia, proprio dalla parte del passeggero. Lui incolume. Lei morta. Come AM, anche sua madre si era trovata in un gioco da cui voleva uscire. Quale? Questo AM non lo avrebbe mai saputo. L’unica certezza era la falsità delle persone di cui si erano innamorati. Ecco il senso della foto davanti al citofono. Suo padre, come Francesca, era uno di “loro”. E quel pomeriggio in mansarda? Un atroce burla. Le lacrime di suo padre erano false. Voleva solo controllare che il figlio stesse alle regole. Studiarlo da vicino ora che “loro” lo avevano coinvolto. Cosa dice adesso Francesca? Sì, conferma. Dice che io, AM, mi sono condannato a morte uscendo dal gioco. Dice che avremmo potuto veramente sposarci e avere figli. Aprire un’agenzia di viaggi. E vivere insieme come i miei genitori. E AM continua a vedere immagini vere. Come l’ombra sul tetto della sua mansarda, quando gli recapitarono la busta. Vede Francesca salire sul taxi e, dopo la curva, chiedere al tassista di fermarsi perché ha cambiato idea: vuole trascorrere la notte con il fidanzato che ha appena lasciato. Raggiunge il tetto dal passaggio che lui stesso le aveva mostrato un giorno d’esta
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te. Con l’aiuto del complice sulle scale lo spaventano, per poi uscire nella notte ridendo. Che buffo! Solo adesso AM dà importanza al fatto di non aver mai conosciuto i genitori di Francesca. Sì. Li aveva visti una volta di sfuggita, a casa loro. La prima e ultima occasione di visitare l’abitazione della sua ragazza. Ma quei due coniugi non erano veri. Semplici comparse per irrobustire la finzione. Semplici comparse come i viaggiatori del treno o gli spettatori nel cinema. E l’uomo con l’impermeabile di cuoio? Poteva essere una donna. Il cappello a larghe falde gli nascondeva il viso. E poi si era fermato troppo lontano, a metà del corridoio centrale. Ma anche se fosse stata lei, ormai non aveva più importanza. Ma perché? Qual era il senso finale? Davanti al sorriso di Francesca, comprese anche questo. Tutta l’operazione aveva un semplice obiettivo: metterlo alla prova per diventare uno di “loro”. Stravolgere la sua quotidianità per osservare le reazioni. Reclutare. Ecco la parola chiave. L’assemblaggio del libro era solo un pretesto. O forse un’operazione vera che andava conclusa. In questo senso, “loro” avevano preso due piccioni con una fava. Sottoporlo a un esame di idoneità, affidandogli una missione reale. E la fava era lui: AM. Non aveva retto. Come sua madre. E l’equazione si risolve con la morte. Francesca adesso annuisce e fa
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dei cenni alle ombre dietro ai tronchi degli alberi. E AM comprende anche perché deve essere lei a ucciderlo. Se non lo facesse, uscirebbe dalle loro regole. Anche per lei è un’ennesima prova. Come lo fu per il padre di AM. La ragazza aveva atteso il luogo e il tempo migliore. Con pazienza e allegria. Ecco perché era rimasta in macchina all’autogril. Non voleva essere riconosciuta. Sicuramente aveva un alibi perfetto per quel giorno. Magari, in quel preciso momento, una ragazza molto somigliante, munita di un passaporto falso con gli estremi di Francesca, stava comodamente seduta in aereo a sorseggiare un drink. Francesca era il model-lo perfetto: innocente e spietata. Sulla spiaggia di Varigotti si era accorta delle lacrime di AM, e non aveva detto nulla per indifferenza. Non per delicatezza. Chissà quale storia aveva alle spalle. Ma non c’era più tempo per pensare e ad AM non importava più nulla. Solo sua madre era dentro di lui. Il suo volto non era sfigurato, ma bello e sorridente come nella fotografia di quando aveva il pancione.
– E adesso? – sussurrò AM. – Adesso – rispose Francesca – dobbiamo salvare le apparenze, pulcino. Una volta morto, usciranno le ombre dagli alberi e ti infileranno un ramo nel culo insieme a qualche goccia di sperma di un ignaro dona-tore. Uno stupro finito in tragedia. Abbiamo fatto in modo che il donatore sia oggi da queste parti per motivi di lavoro. Non sarà facile risalire al suo nome, ma 105
sono sicura che qualcuno li metterà sulla giusta pista. Poveraccio, forse mi fa più pena di te –. La pistola emise un sibilo, quasi un fruscìo di foglie. Per un istante, AM rimase perplesso con un piccolo foro sulla fronte. Infine si accasciò e rimase immobile. Lavorarono intorno al suo cadavere non più di 30 secondi. Poi, Francesca uscì dal bosco insieme alle ombre.
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LA RIUNIONE
Mezzanotte di un giorno feriale. Siamo nella “Churchill Room”, al quinto piano del Ark Royal Hotel, lungo la tangenziale est di Milano. Intorno a un tavolo di mogano siedono dodici persone. Le pareti sono interamente rivestite di radica e tutto l’arredamento è in stile navale. Persino i paralumi hanno la forma di due piccole vele affiancate. L’ampia vetrata rettangolare si apre su un cielo nero e acquoso. Sembra veramente di essere sospesi in mezzo al mare. La sala è stata prenotata dal DarkSide, attraverso una società fittizia. Per il personale dell’albergo quella è una tipica riunione vendite di una ditta dell’hinterland che si è protratta sino a tardi.
– Dunque, signori, questi sono i fatti – disse il dirigente rivolto ai partecipanti – l’operazione AM, comunque, non è stata un completo fallimento. Il ragazzo, con i suoi movimenti, ha involontariamente scritto la trama del libro. Un altro prenderà il suo posto e questa volta centreremo l’obiettivo. Prima, ovviamente, dovremo fare un po’ di pulizia nei vecchi ingranaggi –. Un uomo vestito di grigio, come i suoi colleghi intorno al tavolo, chiese la parola con un cenno della mano. – Dica – – La volta precedente abbiamo scartato il ragazzo sie107
ropositivo, anche se ancora egli stesso lo ignora, per timore che la sua malattia rappresentasse un limite operativo. Credo che abbiamo commesso un errore e perso tempo prezioso. Propongo di coinvolgerlo, mettendolo al corrente di aver contratto la malattia. Se resiste a questo shock, affronterà tutto il resto meglio del precedente candidato –.
– Obiezioni? – chiese il dirigente alla piccola platea. Nessuno rispose. – Bene, ai voti – Iniziarono ad alzarsi le braccia e presto si giunse all’unanimità. – La riunione è aggiornata a venerdì, nell’altra sede – concluse il dirigente e, con un colpo secco, chiuse la cartella rossa davanti a sé. In quel preciso momento, lungo la banchina d’attesa della metropolitana, Enrico Barzi, il professore di Storia della lingua eleusina, era circondato da centinaia di giovani appena usciti da un concerto. Quando arrivò il convoglio, un braccio invisibile lo spinse sui binari. Nessun testimone sarà in grado di stabilire la dinamica e l’incidente verrà archiviato come suicidio. Proprio mentre la sua testa si fracassava contro il treno, due ragazzi, a Palermo, brindavano al loro primo incontro. La ragazza era Francesca, che ora si chiamava Greta. Il ragazzo, invece, uno studente fuori corso di Giurisprudenza che ancora non sapeva di essere sieropositivo. 108
ULTIMO MESSAGGIO
Questo è dedicato solo a te che ci hai seguito sin qui. Non farti confondere dalle trame. Esci dal romanzo. Qui parliamo di reclutamento. L’appuntamento è in via Lanterna. Il giorno non ha importanza. Inizia a camminare con una copia di questo libro in mano. Ci metteremo noi in contatto con te. Oppure puoi essere tu a contattarci. Qui: http://anonimomilanese.splinder.com/
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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI FEBBRAIO 2006 PRESSO “LA FENICE GRAFICA” SCARL DI BORGHETTO LODIGIANO (LO) OGNI RIFERIMENTO A PERSONE, LUOGHI, CIRCOSTANZE E’ PURAMENTE CASUALE
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