mercoledì 21 luglio 2010

[Ebook - ITA] L'Anticristo - Friedrich Nietzsche

Premessa


Questo
libro
appartiene
a
pochissime
persone.
Forse
nessuna
di
esse
esiste
ancora.
O
forse
sono
i
lettori
che
capiscono
il
mio
Zarathustra:
come
potrei
confondermi
con
loro
ai
quali
viene
oggi
prestato
ascolto?
Solo
il
dopodomani
mi
appartiene.
C’è
chi
nasce
postumo.


Le
condizioni
per
cui
mi
si
capisce,
e
mi
si
capisce
quindi
necessariamente,
le
conosco
fin
troppo
bene.
Bisogna
essere
integri
fino
alla
durezza
per
sopportare
nelle
questioni
spirituali
la
mia
serietà
e
la
mia
passione.
Si
deve
essere
avvezzi
alla
vita
sulle
montagne,
a
vedere
al
di
sotto
le
meschine
ed
effimere
chiacchiere
della
politica
e
dell’egoismo
dei
popoli.
Bisogna
diventare
indifferenti,
senza
mai
chiedersi
se
la
verità
sia
utile
o
fatale
per
qualcuno…
Una
predilezione
della
forza
per
domande
che
nessuno
ha
oggi
il
coraggio
di
porre;
il
coraggio
del
proibito;
la
predestinazione
al
labirinto.
Un’esperienza
fatta
di
sette
solitudini.
Nuove
orecchie
per
una
nuova
musica.
Nuovi
occhi
per
ciò
che
è
più
distante.
Una
nuova
coscienza
per
verità
finora
rimaste
mute.
E
la
volontà
per
l’economia
in
grande
stile:
mantenere
la
propria
energia,
il
proprio
entusiasmo…
Il
rispetto
per

stessi;
l’amor
proprio,
la
libertà
illimitata
in
relazione
a
se
stessi…


Ebbene!
Solo
costoro
sono
i
miei
lettori,
i
miei
veri
lettori,
i
miei
lettori
predestinati:
che
importanza
ha
il
resto?
Il
resto
è
soltanto
l’umanità.
Si
deve
essere
superiori
all’umanità.
Si
deve
essere
superiori
all’umanità
per
forza,
per
altezza
d’animo,
per
disprezzo…



I


Guardiamoci
in
faccia:
siamo
iperborei.
Siamo
ben
consapevoli
della
diversità
della
nostra
esistenza.
“Né
per
terra

per
mare
troverai
la
strada
che
conduce
agli
iperborei”:
già
Pindaro
riconosceva
questo
di
noi.
Oltre
il
nord,
oltre
il
ghiaccio
e
la
morte:
la
nostra
vita,
la
nostra
felicità…
Abbiamo
scoperto
la
felicità,
conosciamo
la
via,
abbiamo
trovato
l’uscita
per
interi
millenni
di
labirinto.
Chi
altri
l’ha
trovata?
Forse
l’uomo
moderno?
“Non
so
che
fare;
sono
tutto
ciò
che
non
sa
che
fare”,
sospira
l’uomo
moderno…
E’
di
questa
modernità
che
c’eravamo
ammalati,
della
putrida
quiete,
del
vile
compromesso,
di
tutta
la
virtuosa
sporcizia
del
moderno

e
no.
Una
simile
tolleranza
e
langeur
di
cuore,
che
“perdona”
tutto
perché
“comprende”
tutto,
è
scirocco
per
noi.
Meglio
vivere
in
mezzo
ai
ghiacci
che
tra
le
virtù
moderne
e
gli
altri
venti
del
sud!…
Eravamo
abbastanza
coraggiosi,
non
risparmiavamo

noi
stessi

gli
altri:
eppure
per
lungo
tempo
non
abbiamo
saputo
in
che
cosa
impegnare
il
nostro
coraggio.
Eravamo
diventati
tristi
e
ci
chiamavano
fatalisti.
La
nostra
fatalità
era
la
pienezza,
la
tensione,
il
ristagno
delle
nostre
forze.
Eravamo
assetati
di
lampi
e
di
azioni.
Soprattutto
ci
tenevamo
il
più
possibile
lontani
dalla
felicità
dei
deboli,
dalla
“rassegnazione”…
Ci
fu
una
tempesta
nella
nostra
atmosfera,
la
natura
che
noi
siamo
s’oscurò,
perché
non
avevamo
una
via.
La
formula
della
nostra
felicità:
un
sì,
un
no,
una
linea
retta,
una
meta…


II


Che
cosa
è
bene?
Tutto
ciò
che
accresce
il
senso
di
potenza,
la
volontà
di
potenza
e
la
potenza
stessa
dell’uomo.


Che
cosa
è
male?
Tutto
ciò
che
deriva
dalla
debolezza.


Che
cosa
è
la
felicità?
Sentire
che
la
potenza
aumenta,
che
si
vince
una
resistenza.



Non
soddisfazione,
ma
più
potenza;
non
pace
universale,
ma
guerra;
non
virtù,
ma
abilità
(virtù
nello
stile
rinascimentale,
virtus,libera
da
convenzioni
morali).


I
deboli
e
i
malriusciti
dovranno
perire:
primo
principio
della
nostra
filantropia.
Inoltre
li
si
dovrà
aiutare
a
farlo.


Che
cosa
è
più
dannoso
di
qualsiasi
vizio?
L'attiva
pietà
per
tutti
i
deboli
e
i
malriusciti,
il
cristianesimo...


III


II
problema
che
qui
sollevo
non
è
che
cosa
debba
sostituire
l'umanità
nella
successione
delle
specie
(l'essere
umano
rappre-
senta
un
termine):
piuttosto
che
tipo
di
essere
umano
si
debba
educare
e
auspicare,
perché
più
valido,
più
degno
di
vivere
e
più
sicuro
del
futuro.


Questo
tipo
di
maggior
valore
è
già
esistito
piuttosto
spesso:
ma
come
caso
fortuito,
un'eccezione,
mai
perché
voluto.
È
stato
invece
il
più
temuto:
finora
ha
costituito
ciò
che
mette
paura.
E
per
paura
è
stato
voluto,
educato
e
ottenuto
il
tipo
opposto:
l'animale
domestico,
la
bestia
del
gregge,
l'insano
animale
umano,
il
cristiano...


IV


L
'umanità
non
rappresenta,
come
si
ritiene
oggi,
un'evoluzione
verso
il
migliore,
il
più
forte
o
il
più
elevato.
Quella
di
«progresso»
è
soltanto
un'idea
moderna,
vale
a
dire
un'idea
falsa.
L'europeo
di
oggi
vale
assai
meno
dell'europeo
del
Rinascimento;



evoluzione
nel
tempo
non
significa
assolutamente
evoluzione,
progresso
o
rafforzamento.


In
un
altro
senso,
esistono
singoli
casi
di
riuscita
che
fanno
costantemente
la
loro
comparsa
nelle
più
svariate
parti
della
Terra
e
nelle
più
diverse
civiltà
dove
si
manifesta
un
tipo
superiore,
qualche
cosa
che
in
relazione
all'intera
umanità
costituisce
una
specie
di
superuomo.
Queste
occasioni
fortuite
di
grande
riuscita
sono
sempre
state
possibili,
e
forse
lo
saranno
sempre.
Persino
intere
generazioni,
tribù
e
popoli
possono
rappresentare,
sotto
determinati
aspetti,
tale
colpo
fortunato.


V


Non
si
dovrebbe
abbellire

mascherare
il
cristianesimo:
esso
ha
intrapreso
una
guerra
a
morte
contro
questo
tipo
superiore
di
uomo,
ne
ha
scomunicato
tutti
gli
istinti
fondamentali
e
ne
ha
distillato
il
male,
il
cattivo,
l'uomo
forte
come
il
riprovevole,
come
«l'abietto».
Il
cristianesimo
ha
preso
le
parti
di
tutto
ciò
che
è
debole,
vile,
malriuscito;
ha
fatto
un
ideale
dell'opposizione
agli
istinti
di
conservazione
della
vita
forte.
Ha
persino
corrotto
la
ragione
delle
nature
intellettualmente
più
vigorose,
insegnando
agli
uomini
a
considerare
i
valori
supremi
della
spiritualità
come
peccaminosi,
come
ingannevoli,
come
tentazioni.
L'esempio
più
deplorevole
è
la
corruzione
di
Pascal,
il
quale
riteneva
la
propria
ragione
giunta
alla
perversione
per
colpa
del
peccato
originale,
mentre
era
solo
stata
corrotta
dal
suo
cristianesimo!


VI


Davanti
a
me
si
apre
uno
spettacolo
desolante
e
spaventoso:
ho
sollevato
la
cortina
dalla
corruzione
dell'uomo.
Nella
mia
bocca
questa
parola
è
indenne
almeno
da
un
sospetto:
che
contenga



un'accusa
morale
all'uomo.
Vorrei
sottolinearlo
ancora
una
volta:
è
scevra
di
ogni
ipocrisia
morale;
e
ciò
fino
al
punto
che
trovo
quella
corruzione
proprio

dove
sinora
si
mirava
più
consapevolmente
alla
«virtù»
e
alla
«divinità».
Come
si
sarà
già
intuito,
intendo
la
corruzione
nel
senso
di
décadence2:
sostengo
che
tutti
i
valori
nei
quali
attualmente
l'umanità
riassume
la
sua
più
alta
aspirazione
sono
valori
della
décadence.


Definisco
corrotto
un
animale,
una
specie,
un
individuo
quando
perde
i
propri
istinti,
quando
sceglie
e
preferisce
ciò
che
gli
è
dan-
noso.
Una
storia
dei
«sentimenti
più
elevati»,
degli
«ideali
dell'u-
manità»
-ed
è
possibile
che
finisca
necessariamente
per
narrarla
-
quasi
costituirebbe
anche
una
spiegazione
del
perché
l'uomo
sia
così
corrotto.
Considero
la
vita
stessa
un
istinto
di
crescita,
di
durata,
di
accumulo
di
forze
e
di
potenza:
dove
la
volontà
di
poten-
za
vien
meno,

è
il
declino.
Affermo
che
questa
volontà
manca
in
tutti
i
valori
supremi
dell'umanità,
che
sotto
i
nomi
più
santi
regnano
valori
di
declino,
valori
nichilistici.


VII


II
cristianesimo
si
chiama
religione
della
pietà.
La
pietà
è
in
anti-
tesi
alle
affezioni
toniche
che
accrescono
l'energia
del
sentimento
vitale:
ha
un
effetto
depressivo.
Quando
si
compatisce
si
perde
forza.
La
perdita
di
forza
che
la
vita
ha
già
subito
per
la
sofferenza
è
ulteriormente
aumentata
e
moltiplicata
dalla
pietà.
La
stessa
sofferenza
grazie
alla
compassione
diventa
contagiosa;
talvolta
può
condurre
a
una
perdita
collettiva
di
vita
e
di
energia
vitale,
che
è
assurda
se
rapportata
al
quantum
della
causa
(il
caso
della
morte
del
Nazareno).
Questo
è
il
primo
aspetto;
ma
ve
n'è
uno
ancora
più
importante.
Se
si
considera
la
compassione
in
base
al
valore
delle
reazioni
che
di
solito
scatena,
il
suo
carattere
letale
appare
in
una
luce
assai
più
chiara.
La
pietà
contrasta
nel
complesso
la
legge
dell'evoluzione,
che
poi
è
la
legge
della
selezione.
Preserva
ciò
che
è
maturo
per
la
distruzione;
difende
i
diseredati
e
i
condannati
della
vita;
a
causa
del
gran
numero
di
soggetti
cagionevoli
di
ogni
specie
che
mantiene
in
vita
conferisce



alla
vita
stessa
un
aspetto
tetro
e
incerto.
Si
è
osato
definire
la
pietà
una
virtù
(in
ogni
morale
nobile
invece
viene
considerata
una
debolezza);
si
è
andati
ancora
oltre,
si
è
fatto
di
essa
la
virtù
per
eccellenza,
il
fondamento
e
l'origine
di
ogni
virtù;
e
questo,
non
bisogna
dimenticarlo,
solo,
in
verità,
dal
punto
di
vista
di
una
filosofia
nichilista,
che
recava
scritto
negazione
della
vita
sul
proprio
scudo.
Schopenhauer
era
nel
giusto
quando
affermava:
la
vita
è
negata
e
resa
più
degna
di
essere
negata
dalla
pietà;
la
pietà
è
la
prassi
del
nichilismo.
Lo
ripetiamo
ancora:
questo
istinto
depressivo
e
contagioso
contrasta
quelli
che
tendono
alla
conservazione
e
all'elevazione
del
valore
della
vita:
sia
come
moltiplicatore
di
miseria
che
come
conservatore
di
tutto
ciò
che
è
miserabile,
è
uno
degli
strumenti
fondamentali
dell'incremento
della
décadence:
la
pietà
induce
al
nulla!...
Non
si
parla
del
«nulla»:
al
suo
posto
si
dice
«l'aldilà»,
o
«Dio»,
o
«la
vera
vita»,
o
il
nirvana,
la
redenzione,
la
beatitudine...
Questa
retorica
innocente
tratta
dal
dominio
del-
l'idiosincrasia
religioso-morale
appare
subito
molto
meno
innocente
non
appena
si
intuisce
quale
tendenza
in
questo
contesto
si
celi
sotto
i
drappeggi
di
un
mantello
di
parole
sublimi:
la
tendenza
ostile
alla
vita.
Schopenhauer
era
ostile
alla
vita:
perciò
la
compassione
per
lui
divenne
una
virtù...
Aristotele,
come
risaputo,
vedeva
nella
pietà
una
condizione
patologica
e
pericolosa
dalla
quale
di
tanto
in
tanto
era
bene
liberarsi
con
un
purgante:
egli
intese
la
tragedia
come
una
purga.
A
vantaggio
dell'istinto
della
vita,
si
dovrebbe
davvero
cercare
uno
strumento
per
colpire
con
una
punta
acuminata
un'accozzaglia
di
pietà
tanto
morbosa
e
pericolosa,
come
dimostra
il
caso
di
Schopenhauer
(e
sfortuna-
tamente
anche
quello
della
nostra
intera
décadence
letteraria
e
artistica
da
San
Pietroburgo
a
Parigi,
da
Tolstoj
a
Wagner),
perché
possa
scoppiare...
Nella
nostra
malsana
modernità
nulla
è
più
dannoso
della
pietà
cristiana.
Qui
esser
medici,
qui
essere
ineso-
rabili,
qui
brandire
il
bisturi,
questo
è
il
compito
che
ci
spetta,
questa
è
la
nostra
forma
di
filantropia
ed
è
per
questa
che
noi
siamo
filosofi,
noi
iperborei!



VIII


È
necessario
definire
chi
consideriamo
nostra
antitesi:
i
teologi
e
tutti
coloro
in
cui
scorre
sangue
di
teologo
nelle
vene,
tutta
la
nostra
filosofìa...
Bisogna
aver
visto
da
vicino
questa
fatalità,
ancora
meglio,
occorre
averne
fatto
esperienza,
esserne
quasi
stati
uccisi,
per
non
trovarvi
più
nulla
di
divertente
(il
libero
pensiero
dei
nostri
naturalisti
e
fisiologi
è,
ai
miei
occhi,
una
buffonata;
costoro
mancano
di
passione
per
tali
argomenti,
mancano
di
sofferenza).
Questo
avvelenamento
giunge
ben
più
lontano
di
quanto
si
pensi:
ho
trovato
l'istinto
teologico
della
superbia
ovunque
oggi
ci
si
senta
«idealisti»,
ovunque,
in
virtù
di
un'origine
più
elevata,
ci
si
arroghi
il
diritto
di
guardare
la
realtà
con
atteggiamento
di
superiorità
e
di
estraneità...
Proprio
come
il
sacerdote,
l'idealista
ha
tutti
i
grandi
concetti
in
mano
(e
non
solo
in
mano!),
li
impiega
con
caritatevole
disprezzo
contro
F«intelligenza»,
i
«sensi»,
['«onore»,
la
«vita
agiata»,
la
«scienza»,
vede
queste
cose
al
di
sotto
di
sé,
come
forze
nocive
e
seducenti
sulle
quali
si
libra
«lo
spirito»
nella
sua
pura
astrazione,
come
se
l'umiltà,
la
castità,
la
povertà,
in
una
parola
la
santità,
non
avessero
finora
arrecato
alla
vita
più
danno
di
ogni
sorta
di
orrore
o
di
vizio...
Lo
spirito
puro
è
pura
menzogna...
Fino
a
quando
il
sacerdote,
questo
negatore,
calunniatore
e
avvelenatore
della
vita
per
professione,
verrà
ancora
considerato
una
razza
superiore
di
essere
umano,
non
vi
potrà
essere
risposta
alla
domanda:
che
cosa
è
la
verità?
Se
questo
consapevole
difensore
del
nulla
e
della
negazione
viene
stimato
come
il
rappresentante
della
«verità»,
la
si
è
già
capovolta...


IX


Dichiaro
guerra
a
questo
istinto
teologico:
ne
ho
trovato
tracce
ovunque.
Chiunque
abbia
nelle
vene
sangue
di
teologo
ha
un'at-
titudine
radicalmente
falsa
e
disonesta
nei
confronti
di
tutte
le
cose.
Il
pathos
che
esso
genera
è
chiamato
fede:
chiudere
gli
occhi
una
volta
per
tutte
davanti
a

stessi
per
non
soffrire
alla
vista
di



un'incurabile
ipocrisia.
Con
questa
falsa
prospettiva
su
tutte
le
cose,
ci
si
crea
una
morale,
una
virtù,
una
santità
su
misura,
si
uni-
sce
la
buona
coscienza
alla
falsa
visione,
si
pretende
che
nessun
altro
tipo
di
ottica
abbia
valore,
dopo
che
si
è
resa
sacrosanta
la
propria
con
le
parole
«Dio»,
«redenzione»,
«eternità».
Ho
scovato
l'istinto
teologico
in
ogni
dove:
è
la
più
diffusa,
la
più
sotterranea
forma
di
falsità
esistente
sulla
Terra.
Ciò
che
un
teologo
percepisce
come
vero
è
sicuramente
falso:
questo
è
quasi
un
criterio
di
verità.
E
il
suo
istinto
più
basso
di
autoconservazione
a
proibirgli
di
considerare
un
qualsiasi
aspetto
della
realtà
o
anche
solo
di
parlarne.
Ovunque
si
estenda
l'influenza
teologica,
viene
capo-
volto
il
giudizio
di
valore,
i
concetti
di
«vero»
e
di
«falso»
sono
necessariamente
rovesciati:
qui
viene
chiamato
«vero»
ciò
che
è
più
dannoso
alla
vita,
mentre
ciò
che
la
eleva,
la
rafforza,
la
affer-
ma,
la
giustifica
e
la
fa
trionfare
è
chiamato
«falso»...
Se
capita
che,
tramite
la
«coscienza»
di
prìncipi
(o
di
popoli),
i
teologi
allunghino
le
mani
sul
potere,
non
vi
sono
dubbi
su
ciò
che
sempre
ne
è
la
causa:
la
volontà
della
fine,
il
volere
nichilistico
brama
il
potere...


X


I
tedeschi
mi
capiranno
immediatamente
se
affermo
che
la
filosofia
è
stata
corrotta
dal
sangue
dei
teologi.
Il
pastore
protestante
è
l'avo
della
filosofia
tedesca,
il
protestantesimo
stesso
ne
è
il
peccatum
originale.
Definizione
del
protestantesimo:
semiparalisi
del
cristianesimo
e
della
ragione...
Basta
solo
pronunciare
le
parole
«Scuola
di
Tubinga»
per
capire
cosa
sia
la
filosofia
tedesca
in
realtà:
una
scaltra
teologia...
Gli
svevi
sono
i
migliori
mentitori
della
Germania,
mentono
con
innocenza...
Perché
nel
mondo
accademico
tedesco,
costituito
per
tre
quarti
da
figli
di
pastori
e
insegnanti,
si
esultò
tanto
all'apparire
di
Kant?
Donde
proveniva
la
convinzione
dei
tedeschi,
che
trova
eco
ancora
oggi,
secondo
cui
con
Kant
inizia
un
cambiamento
verso
il
meglio
?
L'istinto
teologico
nel
tedesco
erudito
presagiva
quello
che
era
nuovamente
possibile
per
l'avvenire...
Si
disvelava
un
sentiero
segreto
verso
il
vecchio



ideale;
il
concetto
di
«mondo
vero»
e
il
concetto
di
morale
come
essenza
del
mondo
(i
due
errori
più
scellerati
che
esistano!),
grazie
a
uno
scetticismo
malizioso
e
scaltro,
riapparivano,
se
non
dimostrabili,
per
lo
meno
non
più
confutabili...
La
ragione,
il
diritto
della
ragione
non
arriva
tanto
lontano...
Si
era
fatto
della
realtà
una
«apparenza»;
un
mondo
completamente
falsificato,
quello
dell'essere,
era
trasformato
in
realtà...
Il
successo
di
Kant
è
semplicemente
il
successo
del
teologico:
Kant,
come
Lutero
e
Leibniz,
fu
una
costrizione
ulteriore
alla
integrità
tedesca,
di
per

poco
salda...


XI


Ancora
una
parola
contro
Kant
moralista.
Una
virtù
deve
essere
una
nostra
creazione,
la
nostra
più
personale
difesa
e
necessità:
in
qualsiasi
altro
senso
è
solo
un
pericolo.
Ciò
che
non
rappresenta
una
condizione
vitale
le
è
nocivo:
una
virtù
dettata
semplicemente
da
un
senso
di
rispetto
per
l'idea
di
«virtù»,
come
auspicava
Kant,
è
dannosa.
«Virtù»,
«dovere»,
«bene
in
sé»,
il
bene
con
il
carattere
dell'impersonalità
e
dell'universalità:
fantasmi,
espressioni
di
declino,
dell'estremo
indebolimento
della
vita,
di
cineserie
di
Kònigsberg.
Le
leggi
più
profonde
della
conservazione
e
della
crescita
richiedono
l'opposto:
che
ognuno
di
noi
escogiti
la
sua
virtù
per
sé,
il
suo
imperativo
categorico.
Un
popolo
perisce
quando
confonde
il
dovere
personale
con
il
concetto
di
dovere
in
generale.
Niente
guasta
tanto
in
profondità
e
intimamente
quanto
qualsiasi
dovere
«impersonale»,
qualsiasi
sacrificio
al
Moloch
dell'astrazione.
L'imperativo
categorico
di
Kant
avrebbe
dovuto
essere
percepito
come
mortalmente
pericoloso!...
L'istinto
teologico
fu
il
solo
a
prenderlo
sotto
la
sua
protezione!
Un'azione
determinata
dall'istinto
della
vita
si
dimostra
retta
per
la
gioia
della
sua
attuazione:
invece
quel
nichilista,
dalle
viscere
cristiano-
dogmatiche,
intende
la
gioia
come
un'obiezione...
Che
cosa
è
più
deleterio
del
lavorare,
del
pensare,
del
sentire
senza
una
neces-
sità
interiore,
senza
una
profonda
scelta
personale,
senza
gioia,
come
un
automa
del
«dovere»?
Addirittura
è
la
ricetta
per
la



décadence,
per
l'idiozia...
e
Kant
divenne
idiota.
Ed
era
contemporaneo
di
Goethe!.
Questo
ragno
fatale
era
reputato
il
filosofo
tedesco,
e
lo
è
ancora!
Mi
guardo
bene
dall'esprimere
ciò
che
penso
dei
tedeschi...Kant
non
vedeva
forse
nella
rivoluzione
francese
la
transizione
da
una
forma
inorganica
dello
Stato
a
una
organica?
Non
si
era
chiesto
se
esistesse
un
evento
altrimenti
inspiegabile
se
non
con
una
predisposizione
morale
dell'umanità,
così
che
la
«tendenza
dell'umanità
a
cercare
il
bene»
si
dimostrasse
una
volta
per
tutte?
La
risposta
di
Kant:
«È
la
rivoluzione».
L'istinto
erroneo
in
tutto
e
per
tutto,
la
contro
natura
come
istinto,
la
décadence
tedesca
fatta
filosofia:
questo
è
Kant!


XII


Escludo
pochi
scettici
che
rappresentano
il
tipo
onesto
nella
storia
della
filosofia:
ma
il
resto
ignora
i
primi
requisiti
dell'integrità
intel-
lettuale.
Questi
grandi
visionali
ed
esseri
prodigiosi
si
comportano
tutti
come
donnicciole:
prendono
«i
buoni
sentimenti»
già
per
argomenti,
il
«petto
in
fuori»
per
mantice
della
divinità,
la
convin-
zione
per
un
criterio
di
verità.
Alla
fine
Kant,
nella
sua
innocenza
«tedesca»,
tentò
di
conferire
a
questa
forma
di
corruzione,
a
questa
mancanza
di
coscienza
intellettuale,
una
facciata
scientifica
sotto
il
concetto
della
«ragion
pratica»:
inventò
una
ragione
specifica
per
cui
non
si
dovrebbe
badare
alla
ragione
quando
la
morale,
la
sublime
pretesa
«tu
devi»,
si
fa
sentire.
Se
si
considera
che,
presso
quasi
tutti
i
popoli,
il
filosofo
è
solo
un
ulteriore
sviluppo
del
tipo
sacer-
dotale,
non
sorprenderà
più
scoprire
questa
eredità
del
sacerdote,
questa
falsificazione
davanti
a

stessi.
Quando
si
hanno
compiti
sacri,
come
quello
di
migliorare,
salvare
e
redimere
gli
uomini,
quando
si
portarla
divinità
nel
petto,
quando
si
è
i
portavoce
dell'imperativo
ultraterreno,
si
è
già,
con
tale
missione,
al
di
sopra
di
ogni
valutazione
puramente
razionale,
si
è
già
santificati
da
un
compito
simile,

è
già
modelli
di
un
ordine
superiore!...
Che
importa
a
un
sacerdote
della
scienza!
È
troppo
al
di
sopra
di
essa!
E
il
sacerdote
ha
dominato
fino
a
oggi!
Ha
fissato
i
concetti
di
«vero»
e
di
«falso»!...



XIII


Non
sottovalutiamo
ciò:
noi
stessi,
noi
spiriti
liberi,
siamo
già
una
«trasvalutazione
di
tutti
i
valori»,
l'incarnazione
della
dichiarazione
di
guerra
e
di
vittoria
a
tutti
i
vecchi
concetti
di
«vero»
e
di
«falso».
Le
concezioni
più
preziose
sono
le
ultime
a
essere
scoperte,
ma
le
concezioni
più
valide
sono
i
metodi.
Tutti
i
metodi,
tutti
i
presupposti
del
nostro
costume
scientifico
attuale
sono
stati
per
millenni
oggetto
del
più
profondo
disprezzo:
a
causa
loro
si
veniva
esclusi
dalla
frequentazione
di
uomini
«onesti»,
si
era
considerati
«nemici
di
Dio»,
spregiatori
della
verità,
uomini
«posseduti».
In
quanto
mentalità
scientifiche
si
era
dei
Ciandala1...
Abbiamo
avuto
l'intero
pathos
dell'umanità
contro
di
noi,
la
sua
concezione
di
ciò
che
la
verità
deve
essere,
di
ciò
che
deve
essere
il
servizio
della
verità:
ogni
«tu
devi»
fino
a
oggi
è
stato
indirizzato
contro
di
noi...
I
nostri
oggetti,
i
nostri
procedimenti,
la
nostra
natura
quieta,
cauta
e
diffidente:
tutto
ciò
appariva
loro
assolutamente
indegno
e
spregevole.
Alla
fine
occorrerebbe
domandarsi,
e
a
ragione,
se
non
sia
stato
in
realtà
un
gusto
estetico
quello
che
ha
mantenuto
l'umanità
in
una
cecità
tanto
lunga:
essa
richiedeva
un
effetto
pittoresco
alla
verità,
pretendeva
da
chi
persegue
il
sapere
anche
la
produzione
di
una
potente
impressione
sui
sensi.
La
nostra
modestia
per
lunghissimo
tempo
andò
contro
il
loro
gusto...
Oh,
come
avevano
indovinato
bene
tutto
ciò,
questi
tacchini
di
Dio!...


XIV


Noi
abbiamo
imparato
di
nuovo
il
mestiere.
Siamo
divenuti
più
modesti
sotto
ogni
aspetto.
Non
traiamo
più
le
origini
dell'uomo
dallo
«spirito»,
dalla
«divinità»,
lo
abbiamo
ricollocato
tra
gli
ani-
mali.
Lo
consideriamo
l'animale
più
forte
perché
è
il
più
astuto:
la
sua
intelligenza
ne
è
una
conseguenza.
D'altro
canto
ci
pro-
teggiamo
da
una
vanità
che
vorrebbe
trovare
espressione
persino
qui:
la
pretesa
che
l'uomo
sia
il
grande
obiettivo
segreto
dell'e-
voluzione
animale.
L'uomo
non
è
assolutamente
il
coronamento



della
creazione:
ogni
altro
essere
è,
accanto
a
lui,
allo
stesso
grado
di
perfezione...
E
affermando
ciò
già
siamo
eccessivi:
l'uomo
è,
relativamente
parlando,
tra
gli
animali
il
meno
riuscito,
il
più
malato
e
quello
più
pericolosamente
deviato
dai
propri
istinti.
Con
tutto
ciò,
è
certo
anche
il
più
interessante!
Riguardo
agli
animali,
Descartes
fu
il
primo
che,
con
ammirevole
coraggio,
osò
pensare
all'animale
come
a
una
macchina:
tutta
la
nostra
scienza
fisiologica
è
dedita
alla
dimostrazione
di
tale
tesi.
Ma
noi,
logicamente,
non
mettiamo
da
parte
l'uomo,
come
pure
fece
Descartes;
la
nostra
conoscenza
dell'uomo
oggi
non
supera
i
confini
di
una
visione
meccanicistica.
In
altri
tempi
si
attribuiva
all'uomo
il
«libero
arbitrio»,
dote
derivatagli
da
un
ordine
superiore:
oggi
gli
abbiamo
persino
sottratto
la
volontà,
nel
senso
che
la
volontà
non
può
più
essere
intesa
come
facoltà.
Il
vecchio
termine
«volontà»
serve
solo
a
designare
una
risultante,
una
specie
di
reazione
individuale
che
necessariamente
segue
da
una
moltitudine
di
stimoli
in
parte
contraddittori
e
in
parte
concordanti.
La
volontà
non
«opera»
più,
non
«muove»
più
nulla...
Un
tempo
nella
coscienza
dell'uomo,
nel
suo
«spirito»
si
coglieva
la
prova
della
sua
origine
superiore,
della
sua
divinità;
per
renderlo
più
perfetto
gli
fu
consigliato
di
rinchiudere
in

i
propri
sensi,
come
una
tartaruga,
di
cessare
i
rapporti
con
ciò
che
è
terreno
e
di
spogliarsi
della
veste
mortale:
allora
sarebbe
rimasta
la
sua
parte
essenziale,
lo
«spirito
puro».
Anche
su
questo
abbiamo
cambiato
idea:
il
divenire
coscienti,
«lo
spirito»,
sono
per
noi
un
sintomo
di
una
relativa
imperfezione
dell'organismo,
di
un
tentativo,
di
un
annaspare,
di
un
errore
grossolano,
come
di
una
fatica
in
cui
viene
impiegata
inutilmente
un'enorme
quantità
di
forza
nervosa;
neghiamo
che
alcunché
possa
essere
fatto
alla
perfezione
fintanto
che
è
fatto
cosciente.
Lo
«spirito
puro»
è
una
pura
idiozia:
se
astraiamo
dal
sistema
nervoso,
dai
sensi,
dalle
«mortali
spoglie»,
abbiamo
fatto
male
i
calcoli,
tutto
qui!



XV


Nel
cristianesimo,

la
morale

la
religione
hanno
punti
in
contatto
con
la
realtà.
Nient'altro
che
cause
immaginarie
(«Dio»,
«anima»,
«io»,
«spirito»,
«libero
arbitrio»,
ovvero
il
«non
libero
arbitrio»):
solo
effetti
immaginari
(«peccato»,
«redenzione»,
«gra-
zia»,
«castigo»,
«remissione
dei
peccati»).
Un
rapporto
tra
esseri
immaginari
(«Dio»,
«spiriti»,
«anime»);
una
scienza
naturale
immaginaria
(antropocentrica;
una
totale
mancanza
del
concetto
di
cause
naturali);
una
psicologia
immaginaria
(soltanto
auto-
fraintendimenti,
interpretazioni
di
sentimenti
generali
piacevoli
o
spiacevoli,
per
esempio
degli
stati
del
nervus
sympathicus,
con
l'ausilio
del
linguaggio
di
segni
dell'idiosincrasia
religioso-morale:
«pentimento»,
«rimorso
di
coscienza»,
«tentazione
del
demonio»,
«cospetto
di
Dio»);
una
teleologia
immaginaria
(il
«regno
di
Dio»,
il
«giudizio
universale»,
la
«vita
eterna»).
Questo
mondo
puramente
fittizio
con
suo
grande
svantaggio
si
distingue
dal
mondo
dei
sogni
per
il
fatto
che
quest'ultimo
rispecchia
la
realtà,
mentre
il
primo
la
falsifica,
la
svaluta
e
la
nega.
Dopo
che
il
concetto
di
«natura»
è
stato
inventato
come
antitetico
al
concetto
di
«Dio»,
il
termine
«naturale»
è
diventato
sinonimo
di
«deprecabile»;
tutto
questo
mondo
fittizio
ha
le
sue
radici
nell'odio
per
il
naturale
(la
realtà!)
ed
è
l'espressione
di
un
profondo
disagio
davanti
al
reale...
Ma
ciò
spiega
tutto.
Chi
è
il
solo
ad
aver
motivo
di
astrarsi
dalla
realtà
con
le
menzogne?
Colui
che
ne
soffre.
Ma
soffrire
a
causa
della
realtà
significa
essere
un
fallimento...
La
preponderanza
del
sentimento
di
dispiacere
su
quello
di
piacere
è
la
causa
di
questa
morale
e
di
questa
religione
fittizie:
ma
una
tale
preponderanza
offre
pure
la
formula
della
décadence...


XVI


Un
esame
critico
della
concezione
cristiana
di
Dio
conduce
neces-
sariamente
a
un'identica
conclusione.
Un
popolo
che
crede
ancora
in
se
stesso
ha
ancora
il
proprio
Dio.
In
lui
venera
le
con-


dizioni
grazie
alle
quali
ha
prosperato,
le
proprie
virtù;
proietta
il
suo
appagamento,
il
suo
sentimento
di
potere
su
un
essere
a
cui
si
può
rendere
grazie.
Chi
è
ricco
vuole
donare;
un
popolo
fiero
ha
bisogno
di
un
Dio
a
cui
fare
sacrifici...
Sulla
base
di
queste
premesse,
la
religione
è
una
forma
di
gratitudine.
Si
è
grati
per

stessi:
per
questo
si
ha
bisogno
di
un
Dio.
Un
Dio
deve
poter
essere
allo
stesso
tempo
utile
e
nocivo,
amico
e
nemico.
Lo
si
venera
nel
bene
e
nel
male.
La
castrazione
contronatura
di
un
Dio
per
un
Dio
soltanto
del
bene
sarebbe
qui
al
di
fuori
di
tutto
ciò
che
si
può
auspicare.
Si
ha
bisogno
del
Dio
cattivo
come
del
Dio
buono,
poiché
non
si
deve
certo
la
propria
esistenza
alla
filantropia
o
alla
tolleranza...
Quale
importanza
avrebbe
un
Dio
che
non
conoscesse
alcunché
della
rabbia,
della
vendetta,
dell'invidia,
della
derisione,
della
scaltrezza,
degli
atti
di
violenza?
Al
quale
fossero
sconosciuti
persino
i
più
estatici
ardeurs
della
vittoria
e
della
distruzione?
Un
tale
Dio
sarebbe
incomprensibile:
perché
averlo
dunque?
Certo:
quando
un
popolo
è
in
disfacimento;
quando
sente
svanire
completamente
la
fede
nel
futuro
e
la
speranza
della
libertà;
quando
nella
sua
coscienza
la
servitù
diventa
di
prima
necessità
e
le
virtù
dei
servi
sono
una
condizione
della
sua
sopravvivenza,
allora
anche
il
suo
Dio
deve
modificarsi.
Ecco
che
diviene
bigotto,
timido
e
modesto,
raccomanda
la
«pace
dell'anima»:
non
più
odio,
ma
indulgenza,
«amore»
per
gli
amici
e
pure
per
i
nemici.
Moraleggia
continuamente,
s'insinua
strisciando
nella
tana
di
ogni
virtù
privata,
diviene
il
Dio
per
tutti,
l'uomo
del
privato,
un
cosmopolita...
Un
tempo
rappresentava
un
popolo,
la
forza
di
un
popolo,
tutto
ciò
che
nell'anima
di
un
popolo
vi
era
di
aggressività
e
sete
di
potere:
ora
è
soltanto
il
buon
Dio...
In
effetti
per
gli
dèi
non
c'è
alternativa:
o
sono
la
volontà
di
potenza,
e
quindi
saranno
dèi
di
un
popolo,
o
sono
l'incapacità
alla
potenza,
e
allora
diventeranno
necessariamente
buoni...


XVII


In
tutte
le
forme
in
cui
viene
meno
la
volontà
di
potenza
si
verifica
sempre
pure
una
regressione
fisiologica,
una
décadence.
La
divinità



della
décadence,
recisa
di
tutte
le
sue
virtù
e
i
suoi
istinti
più
virili,
diviene
allora
il
Dio
dei
ritardati
fisiologici,
dei
deboli.
Questi
non
si
definiscono
deboli,
ma
«buoni»...
Senza
apportare
ulteriori
esempi,
si
capisce
in
quale
momento
della
storia
divenne
per
la
prima
volta
possibile
la
dualistica
finzione
di
un
Dio
buono
e
di
un
Dio
cattivo.
Con
il
medesimo
istinto
con
cui
i
sottomessi
riducono
il
proprio
Dio
al
«bene
in
sé»,
essi
cancellano
le
buone
qualità
del
Dio
dei
loro
conquistatori;
si
vendicano
sui
dominatori
demonizzando
il
loro
Dio.
Il
buon
Dio
e
il
diavolo:
sono
entrambi
risultati
della
décadence.
Come
è
possibile
ancora
oggi
rimettersi
così
tanto
alla
semplicità
dei
teologi
cristiani,
al
punto
di
sostenere
con
essi
che
l'evoluzione
del
concetto
di
Dio,
dal
«Dio
d'Israele»,
dal
Dio
di
un
popolo
al
Dio
cristiano,
compendio
di
tutte
le
bontà,
sia
un
passo
avanti?
Ma
Renan
lo
fa.
Come
se
Renan
avesse
diritto
alla
ingenuità!
Ma
il
contrario
salta
agli
occhi.
Quando
le
condizioni
di
una
vita
ascendente,
quando
tutto
ciò
che
c'è
di
forte,
coraggioso,
imperioso
e
fiero
viene
escluso
dal
concetto
di
Dio;
quando
passo
dopo
passo
declina
a
simbolo
di
bastone
per
gli
infermi,
di
àncora
di
salvezza
per
quelli
che
stanno
annegando;
quando
diventa
il
Dio
della
povera
gente,
il
Dio
dei
peccatori,
il
Dio
dei
malati
par
excellence,
e
i
suoi
attributi
«salvatore»
e
«redentore»
rimangono
quali
unici
attributi
del
divino:
di
cosa
parla
una
tale
trasformazione?
una
simile
riduzione
del
divino?
Certo:
finora
il
«regno
di
Dio»
si
è
ingrandito
per
mezzo
di
ciò.
Un
tempo
Dio
aveva
soltanto
il
suo
popolo,
il
popolo
«eletto».
Frattanto,
proprio
come
il
suo
stesso
popolo,
è
andato
in
terre
straniere,
ha
vagabondato;
da
allora
non
si
è
più
fermato
in
alcun
luogo:
finché
si
è
sentito
a
casa
ovunque,
il
gran
cosmopolita,
fino
a
quando
ha
avuto
la
«grande
maggioranza»
e
metà
della
Terra
dalla
sua
parte.
Ma
il
Dio
della
«grande
maggioranza»,
il
democratico
tra
gli
dèi,
tuttavia
non
è
divenuto
un
fiero
Dio
pagano:
è
rimasto
ebreo,
il
Dio
del
cantuccio,
il
Dio
di
tutti
i
luoghi
e
degli
angoli
oscuri,
di
tutti
i
quartieri
malsani
dell'intero
mondo!...
Come
in
precedenza,
il
suo
impero
mondiale
è
un
regno
d'oltretomba,
un
ospedale,
un
impero
sotterraneo,
un
impero
del
ghetto...
Ed
egli
stesso
è
così
emaciato
e
debole,
così
décadent...
Persino
i
più
esangui
tra
i
pallidi
sono
riusciti
a
dominarlo,
i
signori
metafisici,
gli
albini
del
concetto.
Costoro
gli
hanno
tessuto
intorno
la
loro
tela
tanto
a
lungo
che,
ipnotizzato
da
quei
movimenti,
è
divenuto
egli
stesso
un
ragno,
un
metafisico.
Allora
ha
ripreso
a
tessere
il
mondo
fuori
di
sé,
sub
specie
Spinozae,
e
da
quel
momento
si
è
trasformato
in



qualcosa
di
ancor
più
pallido
e
inconsistente,
si
è
mutato
in
un
«ideale»,
uno
«spirito
puro»,
un
«absolutum»,
una
«cosa
in
sé»...
Decadenza
di
un
Dio:
Dio
è
diventato
una
«cosa
in
sé»...


XVIII


La
concezione
cristiana
di
Dio,
Dio
come
Dio
dei
malati,
Dio
come
ragno,
Dio
come
spirito,
è
una
delle
concezioni
di
Dio
più
corrotte
che
siano
mai
state
raggiunte
sulla
Terra.
Forse
rappresenta
persino
il
livello
più
basso
nell'evoluzione
discendente
del
tipo
di
divinità.
Dio
degenerato
nella
contraddizione
della
vita,
invece
di
esserne
la
trasfigurazione
e
l'eterno
sì!
In
Dio
una
dichiarazione
di
ostilità
alla
vita,
alla
natura,
alla
volontà
di
vivere!
Dio
come
formula
per
ogni
calunnia
del
«mondo
di
qua»,
per
ogni
menzogna
del
«mondo
aldilà»!
In
Dio
il
nulla
deificato,
la
volontà
del
nulla
santificata!...


XIX


Che
le
razze
forti
dell'Europa
settentrionale
non
abbiano
ripu-
diato
il
Dio
cristiano
certo
non
fa
onore
alla
loro
attitudine
reli-
giosa,
per
non
parlare
del
loro
gusto.
Avrebbero
dovuto
sentirsi
obbligate
a
farla
finita
con
un
prodotto
della
décadence
tanto
malato
e
decrepito.
Invece
pesa
su
di
loro
una
maledizione
per
non
essersene
disfatti:
hanno
accolto
la
malattia,
la
vecchiaia,
la
con-
traddizione
in
tutti
i
loro
istinti,
da
allora
non
hanno
più
creato
alcun
Dio!
Quasi
due
millenni
e
non
un
solo
nuovo
Dio!
Esiste
invece
ancora
questo
pietoso
Dio
del
monoteismo
cristiano,
come
di
diritto,
come
un
ultimatum
e
un
maximum
della
forza
creativa
di
Dio,
del
creator
spiritus
nell'uomo!
Questo
ibrido
di
declino
fatto
di
nulla,
concetto
e
contraddizione,
in
cui
trovano
la
loro
sanzione



tutti
gli
istinti
della
décadence,
tutte
le
viltà
e
le
stanchezze
dell'anima!


XX


Con
la
mia
condanna
del
cristianesimo
non
vorrei
avere
fatto
torto
a
una
religione
affine
che
addirittura
giunge
a
superarlo
in
quanto
a
numero
di
fedeli:
il
buddhismo.
Entrambe,
essendo
reli-
gioni
nichilistiche,
sono
correlate,
sono
religioni
della
décadence;
ma
si
differenziano
l'una
dall'altra
in
modo
sorprendente.
Il
critico
del
cristianesimo
è
profondamente
grato
ai
saggi
indiani,
giacché
ora
è
possibile
comparare
queste
due
religioni.
Il
buddhismo
è
cento
volte
più
realista
del
cristianesimo,
ha
ereditato
un
modo
freddo
e
oggettivo
di
porsi
i
problemi;
nasce
dopo
un
movimento
filosofico
durato
centinaia
di
anni;
appena
esso
sorge,
il
concetto
di
«Dio»
è
già
eliminato.
Il
buddhismo
è
l'unica
religione
veramente
positivistica
che
la
storia
ci
mostri,
anche
nella
sua
teoria
della
conoscenza
(un
rigoroso
fenomenalismo);
esso
non
parla
più
di
«lotta
contro
il
peccato»
bensì,
e
in
ciò
dando
del
tutto
ragione
alla
realtà,
di
«lotta
contro
il
dolore».
Si
è
già
lasciato
alle
spalle,
e
questo
lo
distingue
profondamente
dal
cristianesimo,
l'autoinganno
dei
concetti
morali;
si
trova,
per
esprimere
il
con-
cetto
con
parole
mie,
al
di

del
bene
e
del
male.
I
due
fatti
fisio-
logici
su
cui
si
fonda
e
sui
quali
concentra
il
suo
sguardo
sono:
innanzi
tutto
un'eccessiva
eccitabilità
della
sensibilità
che
si
esprime
con
una
raffinata
capacità
di
soffrire,
e
in
secondo
luogo
un
eccesso
di
intellettualismo,
una
vita
spesa
troppo
a
lungo
sui
con-
cetti
e
sulle
procedure
logiche,
sotto
i
quali
l'istinto
personale
ha
subito
il
male
a
vantaggio
dell’«impersonale»
(due
condizioni
che,
come
me,
almeno
alcuni
dei
miei
lettori,
gli
«obiettivi»,
conosceranno
per
esperienza).
Sulla
base
di
tali
condizioni
fisiologiche
si
sviluppa
un
stato
di
depressione:
contro
essa
Buddha
prende
delle
misure
igieniche.
Vi
oppone
la
vita
all'aria
aperta,
la
vita
in
movimento;
la
moderazione
e
la
scelta
dei
cibi;
la
cautela
verso
tutte
le
bevande
alcooliche,
come
pure
verso
tutti
i
senti-
menti
che
producono
bile
e
riscaldano
il
sangue;
nessuna



preoccupazione

per


per
gli
altri.
Egli
esige
pensieri
che
diano
o
quiete
o
allegria,
e
trova
il
modo
per
disabituarsi
a
quelli
di
altro
tipo.
Intende
la
bontà,
l'essere
buoni,
come
vantaggioso
alla
salute.
La
preghiera
è
esclusa,
come
pure
l'ascetismo;
nessun
imperativo
categorico,
soprattutto
nessuna
costrizione,
nemmeno
nelle
comunità
monastiche
(si
è
liberi
di
andarsene)
:
tutto
ciò
sarebbe
un
modo
per
accrescere
quell'eccessiva
eccitabilità.
Sempre
per
questa
ragione
pretende
che
non
si
combatta
contro
coloro
che
hanno
un
modo
diverso
di
pensare;
il
suo
insegnamento
si
oppone
più
di
ogni
altra
cosa
al
sentimento
di
vendetta,
di
avversione,
di
ressentiment
(«l'inimicizia
non
cessa
con
l'inimicizia»,
è
questo
il
commovente
ritornello
di
tutto
il
buddhismo).
E
a
ragione:
queste
emozioni
sarebbero
del
tutto
dannose
rispetto
al
principale
obiettivo
dietetico.
Combatte
la
stanchezza
spirituale
che
egli
trova
e
che
si
esprime
con
eccessiva
«obiettività»
(vale
a
dire
con
una
diminuzione
dell'interesse
dell'individuo,
con
una
per-
dita
del
baricentro,
dell'«egoismo»),
con
un
severo
ritorno
anche
agli
interessi
più
spirituali,
alla,
persona.
Nella
dottrina
di
Buddha
l'egoismo
diviene
un
dovere:
il
principio
«una
sola
cosa
è
neces-
saria»,
il
«come
ti
puoi
liberare
dalla
sofferenza»
regolano
e
cir-
coscrivono
tutta
la
dieta
spirituale
(si
rammenti
quell'ateniese
che
in
modo
analogo
muoveva
guerra
alla
«scientificità»
pura,
si
ricordi
Socrate,
il
quale
elevò
l'egoismo
individuale
alla
dignità
di
principio
morale
persino
nel
regno
dei
problemi).


XXI


La
condizione
per
il
buddhismo
è
un
clima
assai
dolce,
una
grande
mitezza
e
liberalità
nei
costumi,
nessun
militarismo;
assieme
al
fatto
che
il
movimento
ha
il
suo
focolare
nelle
classi
più
elevate
e
colte.
Si
ambisce
alla
serenità,
alla
tranquillità,
all'assenza
di
desi-
deri
come
meta
suprema
e
si
raggiunge
tale
meta.
Il
buddhismo
non
è
una
religione
in
cui
si
aspira
semplicemente
alla
perfezione:
la
perfezione
è
la
norma.


Nel
cristianesimo
gli
istinti
di
chi
è
sottomesso
e
oppresso
sono
in
primo
piano:
le
classi
inferiori
sono
quelle
che
vi
cercano
la
sal-


vezza.
Qui
la
casistica
del
peccato,
l'autocritica,
l'inquisizione
della
coscienza
è
praticata
come
occupazione,
come
rimedio
specifico
contro
la
noia;
qui
è
costantemente
tenuto
in
vita
un
rapporto
affettivo
con
un
potente
chiamato
«Dio»
(con
la
preghiera)
;
il
più
elevato
viene
considerato
irraggiungibile,
un
dono,
una
«grazia».
Qui
manca
anche
un
luogo
che
sia
pubblico:
i
luoghi
nascosti,
le
stanze
buie
sono
cristiani.
Qui
si
disprezza
il
corpo,
si
ripudia
l'igiene
come
forma
di
sensualità;
la
Chiesa
si
oppone
alla
pulizia
(la
prima
misura
presa
dai
cristiani
dopo
la
cacciata
dei
mori
fu
la
chiusura
dei
bagni
pubblici,
mentre
la
sola
Cordova
ne
possedeva
270).
È
cristiano
un
certo
senso
di
crudeltà
verso

stessi
e
verso
gli
altri,
è
cristiano
l'astio
per
coloro
che
la
pensano
differentemente,
è
cristiana
la
volontà
persecutoria.
Idee
tetre
ed
eccitanti
sono
in
primo
piano;
gli
stati
spirituali
più
desiderati
e
designati
con
i
nomi
più
eccelsi
sono
quelli
epilettoidi;
la
dieta
viene
scelta
in
modo
da
favorire
fenomeni
morbosi
e
sovreccitare
i
nervi.
È
cristiana
l'ostilità
mortale
contro
i
dominatori
della
Terra,
contro
i
«nobili»,
e
nello
stesso
tempo
una
competizione
più
nascosta
e
segreta
(si
lascia
loro
il
corpo,
si
vuole
solo
l'«anima»).
È
cristiano
l'odio
per
lo
spirito,
l'orgoglio,
il
coraggio,
la
libertà,
il
libertinaggio
spirituale;
è
cristiano
l'odio
per
i
sensi,
per
la
gioia
dei
sensi,
l'odio
per
la
gioia
in
generale...


XXII


II
cristianesimo,
quando
lasciò
il
suo
luogo
d'origine,
le
classi
più
umili,
i
bassifondi
del
mondo
antico,
quando
cercò
il
potere
fra
popoli
barbari,
non
si
trovò
davanti
uomini
stanchi,
ma
uomini
dall'animo
selvaggio,
che
si
distruggevano
tra
di
loro,
uomini
forti
eppure
malriusciti.
L'insoddisfazione
di
sé,
il
dolore
di

stessi,
non
sono,
come
per
i
buddhisti,
un'eccessiva
eccitabilità
e
la
facoltà
di
soffrire,
ma,
al
contrario,
il
desiderio
predominante
di
nuocere,
di
sfogare
una
tensione
interiore
attraverso
azioni
e
idee
ostili.
Per
dominare
sui
barbari
il
cristianesimo
aveva
bisogno
di
valori
e
di
concetti
barbari:
il
sacrificio
del
primogenito,
il
bere
sangue
alla
comunione,
il
disprezzo
per
lo
spirito
e
la
cultura,
la



tortura
in
ogni
sua
forma,
fisica
e
spirituale,
una
grande
pompa
nel
culto
pubblico.
Il
buddhismo
è
una
religione
per
uomini
più
.
maturi,
per
razze
divenute
più
benevoli
e
miti,
straordinariamente
spirituali,
sensibili
al
dolore
(l'Europa
non
è
neppure
lontanamente
matura
per
esso)
:
il
ricondurre
alla
pace
e
alla
serenità,
a
una
dieta
nelle
cose
dello
spirito,
a
un
certo
irrobustimento
del
corpo.
Il
cristianesimo
invece
vuole
dominare
sulle
belve;
il
suo
rimedio
è
renderle
malate,
indebolire
è
la
ricetta
cristiana
per
addomesticare,
per
condurre
alla
«civiltà».
Il
buddhismo
è
una
religione
per
la
fine,
per
la
stanchezza
della
civiltà,
il
cristianesimo
non
ne
incontra
una
dinanzi
a
sé,
eventualmente
la
fonda.


XXIII


II
buddhismo,
ripetiamolo,
è
cento
volte
più
freddo,
più
veritiero,
più
oggettivo.
Non
ha
più
bisogno
di
rendere
dignitoso
il
suo
dolore,
la
sua
capacità
di
soffrire,
attraverso
l'interpretazione
del
peccato:
dice
semplicemente
ciò
che
pensa:
«io
soffro».
Invece
per
il
barbaro
il
dolore
in

non
è
decoroso:
egli
come
prima
cosa
ha
bisogno
di
un'interpretazione
del
dolore
per
ammettere
a
se
stesso
che
soffre
(il
suo
istinto
lo
induce
piuttosto
a
negare
le
sofferenze,
spingendolo
a
sopportarle
in
silenzio).
In
questo
caso
la
parola
«diavolo»
fu
un
beneficio:
si
aveva
un
nemico
schiacciante
e
terribile,
non
bisognava
vergognarsi
di
soffrire
a
causa
di
un
simile
nemico.
Nel
fondo
del
cristianesimo
sono
riscontrabili
alcune
sottigliezze
che
appartengono
all'Oriente.
Innanzi
tutto
sa
che
è
assolutamente
indifferente
che
una
cosa
sia
vera
in
se
stessa,
ma
che
è
della
massima
importanza
quanto
essa
sia
creduta
vera.
La
verità
e
la
fede
che
qualcosa
sia
vero:
due
mondi
di
interesse
totalmente
diversi,
quasi
antitetici,
ai
quali
si
giunge
percorrendo
due
strade
completamente
differenti.
Essere
sapienti
a
tale
riguardo
è
sufficiente
in
Oriente
per
rendere
un
uomo
saggio:
così
la
pensano
i
brahmani,
così
ritiene
Platone,
così
intendono
gli
studiosi
di
scienza
esoterica.
Se,
per
esempio,
la
felicità
consiste
nel
credersi
redenti
dal
peccato,
per
un
uomo
non
è
necessario,
come
condizione,
essere
un
peccatore,
ma
sentirsi
peccatore.
Però,
se
è
indispensabile



soprattutto
la
fede,
allora
si
dovranno
screditare
la
ragione,
la
conoscenza
e
la
ricerca:
la
via
per
la
verità
diviene
una
via
proibita.
Una
forte
speranza
è
uno
stimulans
per
la
vita,
più
grande
di
ogni
singola
felicità
che
si
realizzi
effettivamente.
È
necessario
sostenere
chi
soffre,
con
una
speranza
che
nessuna
realtà
possa
smentire,
che
nessuna
realizzazione
possa
vanificare:
una
speranza
nell'aldilà.
(Fu
proprio
a
causa
di
questa
capacità
di
tenere
in
sospeso
gli
infelici
che
i
greci
consideravano
la
speranza
il
male
dei
mali,
il
male
più
insidioso:
quello
rimasto
in
fondo
al
vaso
del
male).
Perché
l'amore
sia
possibile,
Dio
deve
essere
una
persona;
affinchè
gli
istinti
più
bassi
abbiano
voce,
Dio
deve
essere
giovane.
Per
soddisfare
l'ardore
delle
donne
si
pone
in
primo
piano
un
santo
di
bell'aspetto,
per
appagare
quello
degli
uomini
una
Maria.
Ciò
si
fonda
sul
presupposto
che
il
cristianesimo
intendeva
dominare
su
un
terreno
dove
il
culto
di
Afrodite
e
Adone
aveva
già
determinato
il
concetto
di
culto
religioso.
La
pretesa
della
castità
rafforza
la
veemenza
e
l'intensità
interiore
dell'istinto
religioso,
rende
il
culto
più
caldo,
più
fanatico
e
spiritualmente
più
intenso.
L'amore
è
la
condizione
in
cui
l'uomo
il
più
delle
volte
vede
le
cose
come
non
sono.
La
forza
illusoria
raggiunge
qui
il
suo
apice,
come
pure
quella
che
mitiga
e
trasfigura.
Nell'amore
si
sopporta
di
più,
si
tollera
tutto.
Si
trattava
di
rintracciare
una
religione
nella
quale
l'amore
fosse
possibile:
con
essa
ci
poniamo
al
di
sopra
degli
aspetti
peggiori
della
vita,
non
lo
si
vede
nemmeno
più.
E
così
è
per
le
tre
virtù
cristiane:
fede,
speranza
e
carità:
io
le
definisco
i
tre
stratagemmi
cristiani.
Il
buddhismo
è
troppo
maturo,
troppo
positivistico
per
essere
ancora
tanto
astuto.


XXIV


Qui
accenno
soltanto
al
problema
dell'origine
del
cristianesimo.
La
prima
tesi
per
la
soluzione
di
questo
afferma:
il
cristianesimo
si
può
comprendere
solo
a
partire
dal
terreno
dal
quale
si
sviluppò;
non
è
un
movimento
contro
l'istinto
ebraico,
è
la
conseguenza
stessa
di
esso,
un'ulteriore
conclusione
della
sua
logica
terrificante.
Nella
formula
del
Redentore:
«La
salvezza
viene
dagli



ebrei»
'.
La
seconda
tesi
è:
il
tipo
psicologico
del
galileo
è
ancora
riconoscibile,
ma
solo
nella
sua
completa
degenerazione
(che
è
al
contempo
una
mutilazione
e
un'accumulazione
di
caratteri
estranei)
potè
servire
allo
scopo
cui
fu
destinato,
quello
di
essere
il
tipo
di
redentore
dell'umanità.


Gli
ebrei
sono
il
popolo
più
considerevole
della
storia
del
mondo,
poiché,
posti
davanti
alla
questione
dell'essere
e
del
non-
essere,
con
una
consapevolezza
davvero
impressionante
preferi-
rono
l'essere
a
ogni
costo:
questo
fu
la
radicale
falsificazione
di
ogni
natura,
di
ogni
naturalezza,
di
ogni
realtà
di
tutto
il
mondo
interiore
e
di
quello
esteriore.
Si
definirono
oppositori
di
tutte
le
condizioni
alle
quali
a
un
popolo
fino
ad
allora
era
possibile,
era
con-
cesso
vivere;
crearono
da

un
concetto
contrario
alle
condizioni
naturali.
Progressivamente
capovolsero
in
modo
irreparabile
la
religione,
il
culto
religioso,
la
morale,
la
storia
e
la
psicologia
nell'opposto
dei
loro
valori
naturali.
Incontriamo
nuovamente
lo
stesso
fenomeno
sviluppato
in
proporzioni
indicibili.
Tuttavia
solo
come
imitazione.
Rispetto
alla
«nazione
dei
santi»,
la
Chiesa
cristiana
non
ha
alcuna
pretesa
di
originalità.
È
proprio
per
questa
stessa
ragione
che
gli
ebrei
sono
il
popolo
più
fatale
della
storia
del
mondo:
attraverso
il
loro
ulteriore
effetto
hanno
falsificato
l'umanità
a
tal
punto
che
ancora
oggi
il
cristiano
può
avere
un
modo
di
sentire
antisemita
senza
comprendere
di
essere
l'ultima
derivazione
dell'ebraismo.


Nella
mia
Genealogia
della
morale
ho
presentato
per
la
prima
volta
psicologicamente
il
concetto
antitetico
di
una
morale
nobile
e
di
una
morale
del
ressentiment,
quest'ultimo
derivante
dalla
nega-
zione
del
primo:
ma
ciò
corrisponde
totalmente
alla
morale
giudaico-cristiana.
Per
essere
in
grado
di
dire
no
a
tutto
ciò
che
rappresenta
il
movimento
ascendente
della
vita,
la
buona
riuscita,
la
potenza,
la
bellezza,
l'affermazione
di

sulla
Terra,
l'istinto
di
ressentiment,
qui
divenuto
genio,
dovette
inventare
un
altro
mondo
riguardo
al
quale
quell'affermazione
della
vita
apparisse
come
il
male,
il
deplorevole
in
se
stesso.
Considerato
da
un
punto
di
vista
psicologico,
il
popolo
ebreo
è
il
popolo
dalla
forza
vitale
assai
tenace,
e
che,
posto
in
condizioni
impossibili,
liberamente,
con
una
profondissima
intelligenza
di
autoconservazione,
s'allea
con
tutti
gli
istinti
della
décadence,
non
perché
ne
sia
dominato,
ma
perché
ravvisa
in
essi
una
forza
grazie
alla
quale
potrà
prevalere
sul
«mondo».
Gli
ebrei
sono
l'opposto
di
tutti
i
décadent:
sono
stati



costretti
a
fare
i
décadent
fino
all'illusione,
hanno
saputo
porsi,
con
un
non
plus
ultra
del
loro
genio
istrionico,
alla
testa
di
tutti
i
movi-
menti
di
décadence
(quale
nel
cristianesimo
di
Paolo)
per
farsi
più
forti
di
qualsiasi
partito
della
vita
che
dice
di
sì.
Per
quel
tipo
di
uomo
che
nel
giudaismo
e
nel
cristianesimo
ambisce
giungere
alla
potenza,
il
tipo
sacerdotale,
la
décadence
è
soltanto
un
mezzo:
questo
tipo
di
uomo
ha
un
interesse
vitale
nel
rendere
malata
l'umanità
e
nel
conferire
un
senso
pericoloso
alla
vita,
un
senso
denigratorio
del
mondo,
ai
concetti
di
«buono»
e
«cattivo»,
«vero»
e
«falso».


XXV


La
storia
d'Israele,
in
quanto
storia
emblematica
dello
snaturamento
di
tutti
i
valori
naturali,
è
inestimabile:
ne
indicherò
cinque
fatti.
Originariamente,
in
particolare
nel
periodo
dei
re,
anche
Israele
si
trovava
rispetto
a
tutte
le
cose
in
una
relazione
corretta,
vale
a
dire
naturale.
Il
suo
Javeh
era
l'espressione
della
consapevolezza
del
potere,
della
gioia
di
sé,
della
speranza
in
sé:
da
lui
si
aspettava
vittoria
e
salvezza,
con
lui
si
faceva
affidamento
sulla
natura,
che
questa
desse
ciò
di
cui
il
popolo
aveva
bisogno,
soprattutto
la
pioggia.
Javeh
è
il
Dio
d'Israele
e
quindi
il
Dio
di
giustizia;
la
logica
di
ogni
popolo
che
ha
la
potenza
e
ne
ha
una
buona
conoscenza.
Questi
due
aspetti
dell'autoaffermazione
di
un
popolo
trovano
espressione
nel
culto
solenne:
il
popolo
è
grato
per
i
grandi
destini
che
lo
fecero
ascendere
al
potere,
è
grato
per
le
stagioni
dell'anno
e
per
tutta
la
sorte
favorevole
nel-
l'allevamento
del
bestiame
e
nell'agricoltura.
Tale
stato
di
cose
rimase
per
lungo
tempo
quello
ideale,
anche
dopo
essere
stato
liquidato
in
modo
triste:
con
l'anarchia
all'interno
e
gli
assiri
all'esterno.
Ma
il
popolo
conservò
come
sua
suprema
aspirazione
quella
visione
di
un
re
che
fosse
un
soldato
valoroso
e
un
giudice
severo:
come
soprattutto
quel
profeta
tipico
(cioè
critico
e
satirico
nei
confronti
dell'epoca),
Isaia.
Ogni
speranza
però
rimase
inappagata.
L'antico
Dio
non
poteva
più
nulla
di
quello
che
in
altri
tempi
aveva
potuto.
Bisognava
abbandonarlo.
Che
accadde?
Si



modificò
il
suo
concetto,
si
snaturò
il
suo
concetto:
a
questo
prezzo
si
potè
trattenerlo.
Javeh,
il
Dio
della
«giustizia»,
non
fu
più
una
cosa
sola
con
Israele,
l'espressione
del
sentimento
di

proprio
di
un
popolo:
fu
solo
un
Dio
sotto
condizioni...
Il
suo
concetto
divenne
uno
strumento
in
mano
agli
agitatori
sacerdotali
che
da
quel
momento
interpretarono
ogni
felicità
come
una
ricompensa
e
la
disgrazia
come
un
castigo
per
la
disobbedienza
a
Dio,
per
il
«peccato»:
il
modo
più
falso
di
interpretare
un
presunto
«ordine
morale
del
mondo»
attraverso
il
quale
il
concetto
naturale
di
«causa»
ed
«effetto»
veniva
capovolto
per
sempre.
Quando
la
causalità
naturale
viene
eliminata
dal
mondo
per
mezzo
della
ricompensa
e
del
castigo,
si
ha
il
bisogno
di
una
causalità
contro
natura:
allora
segue
tutto
il
resto
di
ciò
che
è
contrario
alla
natura.
Un
Dio
che
chiede,
invece
di
un
Dio
che
aiuta,
che
consiglia,
che
in
una
parola
è
l'espressione
di
ogni
felice
ispirazione
del
coraggio
e
della
fiducia
in

stessi...
La
morale
non
è
più
l'espressione
delle
condizioni
di
vita
e
di
sviluppo
di
un
popolo,
non
è
più
l'istinto
vitale
più
profondo,
ma
è
diventata
astratta,
contraria
alla
vita,
la
morale
come
peggioramento
sistematico
della
fantasia,
come
il
«malocchio»
per
tutte
le
cose.
Che
cosa
è
la
morale
giudaica?
E
quella
cristiana?
Il
caso
che
ha
perduto
la
sua
innocenza;
l'infelicità
macchiata
dal
concetto
di
peccato;
il
benessere
come
pericolo,
come
«tentazione»;
il
malessere
fisiologico,
avvelenato
dal
tarlo
della
coscienza...


XXVI


Falsato
il
concetto
di
Dio;
falsato
il
concetto
di
moralità,
la
casta
sacerdotale
ebraica
non
si
fermò
qui.
Non
si
poteva
adoperare
tutta
la
storia
d'Israele:
si
sbarazzarono
di
essa!
Questi
sacerdoti
compiro-
no
una
prodigiosa
falsificazione,
di
cui
resta
come
documento
una
buona
parte
della
Bibbia:
con
un
singolare
disprezzo
per
ogni
tra-
dizione,
per
ogni
realtà
storica
hanno
tradotto
in
senso
religioso
il
pro-
prio
passato
di
popolo,
cioè
lo
hanno
reso
uno
sciocco
meccanismo
salvifico
di
colpa
contro
Javeh,
e
di
castigo,
di
devozione
e
di
ricom-
pensa.
Se
millenni
d'interpretazione
ecclesiastica
non
ci
avessero



reso
quasi
insensibili
alle
esigenze
di
rettitudine
in
historicis,
senti-
remmo
questo
vergognoso
atto
di
falsificazione
della
storia
molto
più
dolorosamente.
Pure
i
filosofi
appoggiarono
la
Chiesa:
la
men-
zogna
di
un
«ordine
morale
del
mondo»
permea
l'intera
evoluzione
della
filosofia,
persino
di
quella
moderna.
Che
significa
«ordine
morale
del
mondo»?
Che
esiste
una
volta
per
tutte
una
volontà
di
Dio,
che
decide
tutto
ciò
che
l'uomo
deve
o
non
deve
fare;
che
nei
destini
di
un
popolo
o
di
un
individuo
la
volontà
di
Dio
appare
domi-
nante;
cioè
che
egli
castiga
o
premia
a
seconda
del
grado
di
obbedienza.
La
realtà,
messa
al
posto
da
tale
miserevole
menzogna,
significa:
una
certa
classe
di
uomini
parassiti,
quella
di
sacerdote,
prospera
soltanto
a
spese
di
ogni
forma
di
vita
sana,
e
abusa
del
nome
di
Dio:
chiama
«regno
di
Dio»
una
forma
di
società
nella
quale
il
sacerdote
è
colui
che
fissa
il
valore
delle
cose;
chiama
«volontà
di
Dio»
i
mezzi
per
raggiungere
o
mantenere
tale
stato
di
cose;
giudica
con
freddo
cinismo
popoli,
epoche
e
individui
a
seconda
che
siano
stati
utili
o
che
abbiano
resistito
alla
preponderanza
sacerdotale.
Basta
osservarli
all'opera:
in
mano
ai
sacerdoti
ebraici
l'epoca
grandiosa
della
storia
d'Israele
divenne
un'epoca
di
decadenza;
l'esilio,
i
lunghi
anni
di
sventura.
Essa
si
trasformò
in
un
castigo
eterno
per
la
grande
epoca,
periodo
in
cui
il
sacerdote
non
era
ancora
nessuno....
Trasformarono
le
figure
molto
libere
e
potenti
della
storia
d'Israele,
a
seconda
delle
necessità,
in
bigotti
e
miserabili
ipocriti
o
in
«atei»,
semplificarono
la
psicologia
di
ogni
grande
evento
nella
formula
idiota
«obbedienza
o
disobbedienza
a
Dio».
Ma
v'è
di
più:
la
«volontà
di
Dio»
(cioè
la
condizione
per
mantenere
il
potere
della
casta
sacerdotale)
deve
essere
nota;
a
questo
scopo
era
necessaria
una
«rivelazione».
In
parole
povere:
si
richiede
una
grande
falsificazione
letteraria
e
si
svelano
le
Sacre
Scritture,
si
rendono
pubbliche
con
ieratico
fasto,
con
digiuni
e
lamentazioni
per
il
«lungo
peccato».
La
«volontà
di
Dio»
si
era
già
istituita
da
molto
tempo:
tutto
il
male
risiedeva
nel
fatto
che
il
popolo
si
era
allontanato
dalle
Sacre
Scritture...
La
«volontà
di
Dio»
si
era
già
rivelata
a
Mosè...
Che
era
accaduto?
Con
severità
e
pedanteria,
fino
alle
imposte
grandi
e
piccole
che
gli
si
dovevano
pagare
(senza
dimenticare
i
bocconi
di
carne
più
gustosi:
perché
il
sacerdote
è
un
divoratore
di
bistecche),
il
sacerdote
aveva
formulato
una
volta
per
tutte
quello
che
pretendeva,
«quale
era
la
volontà
di
Dio»...
Da
quel
momento
si
organizzò
tutta
la
vita
in
modo
da
rendere
il
prete
indispensabile
in
ogni
circostanza:
in
tutti
gli
eventi
della
vita,
la
nascita,
il
matrimonio,
la
malattia
o
la
morte,



per
non
parlare
del
«sacrificio»
(la
cena).
Ecco
apparire
il
santo
parassita
per
snaturalizzarli,
secondo
lui
per
«santificarli»...
Perché
si
deve
comprendere
questo:
ogni
costume
naturale,
ogni
istituzione
naturale
(lo
stato,
l'ordinamento
giudiziario,
il
matrimonio,
l'assistenza
dei
malati
e
dei
poveri),
ogni
necessità
suscitata
dall'istinto
per
la
vita,
in
breve
tutto
ciò
che
ha
valore
in
sé,
a
causa
del
parassitismo
del
sacerdote
(o
dell'«ordine
morale
del
mondo»),
diviene
completamente
privo
di
valore,
nemico
del
valore.
Alla
fine
si
richiede
una
sanzione,
è
necessaria
una
potenza
che
conferisca
valore,
che
neghi
in
ciò
la
natura
di
queste
cose
e
crei
allora,
proprio
per
questo
un
valore...
Il
sacerdote
svaluta,
dissacra
la
natura:
esiste
solo
a
questo
prezzo.
La
disobbedienza
a
Dio,
cioè
al
sacerdote,
alla
«legge»,
ora
prende
il
nome
di
«peccato»;
i
mezzi
per
«riconciliarsi
con
Dio»,
come
è
giusto,
sono
mezzi
che
assicurano
ancora
più
profondamente
la
sottomissione
al
prete:
solo
il
sacer-
dote
«redime»...
Da
un
punto
di
vista
psicologico,
i
«peccati»
sono
indispensabili
in
qualsiasi
società
organizzata
da
sacerdoti:
sono
i
veri
e
propri
strumenti
del
potere:
il
sacerdote
vive
dei
peccati,
ha
bisogno
che
si
«pecchi»...
Principio
supremo:
«Dio
perdona
chi
fa
penitenza»,
in
sostanza:
colui
che
si
sottomette
al
sacerdote.


XXVII


In
un
ambiente
completamente
falso,
ove
ogni
natura,
ogni
valore
naturale,
ogni
realtà
avevano
contro
i
più
radicati
istinti
delle
classi
dirigenti,

nacque
il
cristianesimo,
forma
finora
insuperata
di
odio
a
morte
contro
la
realtà.
Il
«popolo
santo»,
che
non
aveva
conservato
per
ogni
cosa
che
valori
sacerdotali,
parole
di
sacerdote,
con
una
coerenza
logica
terrificante
si
era
allontanato
da
tutto
ciò
che
era
ancora
potente
sulla
Terra,
definendolo
«profano»,
«mondo»,
«peccato»;
questo
popolo
elaborò
per
i
propri
istinti
un'ultima
formula,
coerente
fino
all'autonegazione:
come
cristianesimo
negò
persino
l'ultima
forma
della
realtà,
il
«popolo
santo»,
il
«popolo
eletto»,
la
stessa
realtà
ebraica.
Il
caso
è
di
primissimo
ordine,
il
piccolo
movimento
di
ribellione,
che
viene
battezzato
con
il
nome
di
Gesù
di
Nazareth,
è
ancora
una
volta
l'i-


stinto
ebraico,
in
altre
parole
l'istinto
sacerdotale
che
non
può
più
tollerare
il
sacerdote
come
realtà,
l'invenzione
di
una
forma
di
esistenza
anche
più
astratta,
di
una
visione
del
mondo
anche
più
irreale
di
quella
che
determina
l'organizzazione
di
una
Chiesa
organizzata.
Il
cristianesimo
nega
la
Chiesa...
Non
vedo
contro
che
cosa
fosse
diretta
questa
rivolta,
di
cui
si
pensò,
o
si
fraintese,
che
Gesù
fosse
il
propugnatore,
se
non
contro
la
Chiesa
ebraica,
la
«Chiesa»
presa
proprio
nel
senso
in
cui
l'intendiamo
oggi.
Fu
una
rivolta
contro
i
«buoni»
e
i
«giusti»,
contro
i
«santi
d'Israele»,
contro
la
gerarchia
sociale,
non
contro
la
corruzione
di
questi
ma
contro
la
casta,
il
privilegio,
l'ordine,
la
formula;
fu
la
sfiducia
negli
«uomini
superiori»,
un
no
pronunciato
contro
tutto
ciò
che
concerneva
preti
e
teologi.
Ma
la
gerarchia
che
per
questo
venne
messa
in
dubbio,
sebbene
solo
momentaneamente,
fu
la
palafitta
sulla
quale
solamente
il
popolo
ebraico
continuò
a
esistere
in
mezzo
all'«acqua»,
l'ultima
possibilità
faticosamente
acquistata
di
sopravvivere,
il
residuum
della
sua
esistenza
politica
autonoma:
un
attacco
contro
di
essa
era
un
attacco
al
più
profondo
istinto
di
un
popolo,
contro
la
più
tenace
volontà
di
vivere
di
un
popolo
mai
esistita
sulla
Terra.
Questo
santo
anarchico
che
innalzò
gli
umili,
i
reietti
e
i
«peccatori»,
Ciandala
all'interno
del
giudaismo
fino
a
contrastare
l'ordine
dominante,
in
un
linguaggio
che,
se
si
deve
credere
ai
Vangeli,
porterebbe
ancora
oggi
in
Siberia,
era
un
criminale
politico,
per
quanto
fossero
possibili
i
criminali
politici
in
una
società
assurdamente
apolitica.
Questo
lo
portò
alla
croce:
prova
ne
è
l'iscrizione
apposta
su
di
essa.
Morì
per
sua
colpa
e
manca
ogni
fondamento
per
affermare
che
morì
per
i
peccati
degli
altri.


XXVIII


Tutt'altra
questione
è
se
Gesù
fosse
stato
davvero
cosciente
di
una
tale
contraddizione
o
se
egli
non
fosse
solo
concepito
come
questa
stessa
contraddizione.
E
qui
per
la
prima
volta
sfioro
il
problema
della
psicologia
del
Redentore.
Confesso
che
leggo
pochi
libri
con
tanta
difficoltà
come
i
Vangeli.
Tali
difficoltà
differiscono



molto
da
quelle
rilevate
dalla
curiosità
sapiente
dello
spirito
tedesco
e
celebrate
come
uno
dei
suoi
più
memorabili
trionfi.
È
già
lontano
il
tempo
in
cui
anch'io,
come
ogni
giovane
letterato
e
con
l'intelligente
lentezza
di
un
raffinato
filologo,
assaporavo
il
lavoro
dell'incomparabile
Strauss.
Allora
avevo
vent'anni:
ora
sono
troppo
serio
per
questo.
Che
m'importa
delle
contraddizioni
della
«tradizione»?
Come
si
possono
definire
le
leggende
dei
santi
«tradizione»?
Le
storie
dei
santi
sono
la
letteratura
più
ambigua
che
esista:
applicare
il
metodo
scientifico
a
esse,
quando
non
esiste
più
alcun'altra
testimonianza,
mi
sembra
un'operazione
condannata
dall'inizio,
una
pura
vanità
da
erudito...


XXIX


Ciò
che
mi
interessa
è
il
tipo
psicologico
del
Redentore.
Infatti
potrebbe
trovarsi
nei
Vangeli
a
dispetto
dei
Vangeli,
anche
se
mutila-
to
e
sovrastrutturato
con
tratti
estranei:
come
quello
di
Francesco
d'Assisi
è
conservato
nelle
leggende
che
lo
riguardano,
a
dispetto
delle
sue
leggende.
Non
la
verità
in
merito
a
ciò
che
ha
fatto,
di
ciò
che
ha
detto,
o
di
come
è
morto,
ma
la
questione
se
il
suo
tipo
sia
ancora
concepibile,
se
è
«tramandato».
I
tentativi
da
me
conosciuti
di
dedurre
addirittura
la
storia
di
un'«anima»
dai
Vangeli
mi
sembrano
testimoniare
una
deprecabile
leggerezza
psi-
cologica.
Il
signor
Renan,
questo
buffone
in
psychologicis,
ha
fornito
per
l'interpretazione
del
tipo
del
Gesù
i
due
concetti
più
inadeguati
che
si
possono
dare:
il
concetto
di
genio
e
quello
di
eroe
(heros).
Ma
se
esiste
qualcosa
che
non
è
evangelico
è
proprio
il
concetto
di
eroe!
Esattamente
l'opposto
di
ogni
lotta,
di
ogni
coinvolgimento
nella
lotta
qui
è
diventato
istinto:
l'incapacità
di
resistere
diviene
morale
(«Non
opporti
al
male!»
è
la
massima
più
profonda
del
Vangelo,
in
un
certo
senso
la
sua
chiave),
la
beatitudine
nella
pace,
nella
dolcezza,
nell'incapacità
all'inimicizia.
Che
cosa
significa
«buona
novella»?
Si
scopre
la
vita
vera,
la
vita
eterna:
questa
non
è
promessa,
è
qui,
è
dentro
di
voi:
in
quanto
vissuta
nell'amore,
nell'amore
senza
sottrazione
o
esclusioni,
senza
distanza.
Tutti
sono
figli
di
Dio,
Gesù
non
reclama
assolutamente
nulla
solo
per




e
in
quanto
è
figlio
di
Dio:
ciascuno
è
uguale
all'altro...
Fare
di
Gesù
un
eroe!
E
che
malinteso
peggiore
ancora
il
termine
«genio»!
Ogni
nostra
nozione,
ogni
nostro
concetto
culturale
di
«spirito»
non
aveva
alcun
significato
nel
mondo
in
cui
visse
Gesù.
Detto
con
il
rigore
del
fisiologo,
una
parola
totalmente
diversa
sarebbe
qui
al
suo
posto
più
idonea:
la
parola
idiota.
Conosciamo
uno
stato
di
eccitazione
patologica
del
senso
tattile,
che
indietreggia
spaventato
dinanzi
a
ogni
contatto,
nel
vedersi
toccare
oggetti
solidi.
Si
riduca
un
tale
habitus
fisiologico
alla
sua
logica
estrema,
come
odio
istintivo
per
ogni
realtà;
come
fuga
nell’«incomprensibile»,
nell'«inconcepibile»;
come
avversione
verso
ogni
formula,
verso
ogni
concetto
temporale
e
spaziale,
verso
tutto
ciò
che
è
solido,
consuetudine,
istituzione,
Chiesa;
come
essere
di
casa
in
un
mondo
in
cui
non
si
tocca
più
alcuna
specie
di
realtà,
in
un
mondo
ormai
solamente
«interiore»,
in
un
mondo
«vero»,
in
un
mondo
«eterno»...
«Il
regno
di
Dio
è
in
voi»...


XXX


L'odio
istintivo
per
la
realtà:
conseguenza
di
una
estrema
capacità
di
soffrire,
di
un'estrema
irritabilità
che
in
genere
non
vuole
più
essere
«toccata»
poiché
avverte
ogni
contatto
con
troppa
intensità.
L'esclusione
istintiva
di
ogni
avversione,
di
ogni
inimicizia,
di
ogni
limite
e
distanza
nel
sentimento:
conseguenza
di
una
estrema
capacità
di
soffrire,
di
un'estrema
irritabilità
che,
in
ogni
resistenza,
in
ogni
necessità
di
resistenza,
provoca
come
un
dispiacere
insopportabile
(cioè
come
qualcosa
di
dannoso,
come
qualcosa
che
l'istinto
di
conservazione
disapprova)
e
che
conosce
la
beatitudine
(il
piacere)
soltanto
nel
non
resistere
più
a
niente,
a
nessuno,

al
male,

al
cattivo:
l'amore
come
sola
e
ultima
possibilità
di
vita...
Queste
sono
le
due
realtà
fisiologiche
sulle
quali
e
a
partire
dalle
quali
si
è
sviluppata
la
dottrina
della
redenzione.
Io
la
intendo
come
una
sublime
evoluzione
dell'edonismo
su
basi
assolutamente
patologiche.
Il
suo
parente
più
prossimo,
anche
se
con
una
considerevole
aggiunta
di
vitalità
greca
e
di
energia
nervosa,
è
l'epicureismo,
la
dottrina
della
redenzione
del
paganesimo.



Epicuro
è
un
tipico
décadent:
io
per
primo
l'ho
giudicato
tale.
La
paura
del
dolore,
persino
di
quello
che
è
infinitamente
piccolo,
non
può
sfociare
in
niente
altro
che
in
una
religione
dell'amore...


XXXI


Ho
già
anticipato
la
mia
risposta
al
problema.
La
sua
premessa
è
che
il
tipo
del
Redentore
ci
è
stato
tramandato
solo
con
una
grande
deformazione.
Questa
deformazione
è
in
se
stessa
assai
probabile:
per
molte
ragioni
un
tipo
simile
non
poteva
rimanere
puro,
integro,
privo
di
addizioni.
Il
milieu
in
cui
tale
strana
figura
si
muove
deve
aver
lasciato
un
segno
in
esso,
e
ancor
più
la
storia,
il
destino
delle
prime
comunità
cristiane:
il
tipo
ne
è
stato,
in
retrospettiva,
arricchito
con
tratti
comprensibili
solo
in
riferimento
alla
lotta
e
alle
mire
propagandistiche.
Questo
mondo
strano
e
malato
nel
quale
il
Vangelo
ci
introduce,
un
mondo
simile
a
quello
di
un
romanzo
russo,
in
cui
il
rifiuto
della
società,
la
neurosi
e
l'idiozia
«infantile»
sembra
si
siano
dati
convegno,
in
tutti
i
modi
deve
avere
reso
più
grossolano
il
tipo.
I
primi
discepoli
in
particolare
dovevano
tradurre
nella
loro
rozzezza
un
essere
totalmente
coperto
da
simboli
e
reso
inconcepibile,
per
poter
comprendere
qualcosa
in
generale;
per
essi
il
tipo
cominciò
a
esistere
solo
dopo
averlo
tradotto
in
forme
più
familiari...
Il
profeta,
il
Messia,
il
giudice
a
venire,
il
maestro
di
morale,
il
taumaturgo,
Giovanni
Battista;
altrettante
opportunità
per
non
riconoscere
il
tipo...
Non
sottovalutiamo
infine
il
proprium
di
ogni
grande
venerazione,
particolarmente
se
è
settaria:
esso
estingue
negli
esseri
venerati
i
tratti
originali
e
le
idiosincrasie
sovente
dolorosamente
estranei:
non
le
vede
nemmeno.
Ci
si
dovrebbe
dispiacere
che
un
Dostojevskij
non
sia
vicino
a
questo
interessantissimo
décadent;
intendo
dire
qualcuno
in
grado
di
cogliere
il
fascino
come
movente
di
tale
combinazione
di
sublime,
malato
e
infantile.
Un
ultimo
punto
di
vista:
il
tipo,
in
quanto
tipo
di
décadence,
potrebbe
essere
stato
realmente
una
singolare
molteplicità
e
contraddittorietà:
non
si
può
escludere
interamente
tale
ipotesi.
Ma
tutto
distoglie
da
questa
possibilità:
proprio
la
tradizione
in
questo
caso
dovrebbe
essere
particolarmente
fedele
e



obiettiva;
noi
invece
abbiamo
motivi
per
supporre
il
contrario.
Allo
stesso
tempo
si
apre
una
contraddizione
tra
il
predicatore
della
montagna,
dei
laghi
e
delle
praterie,
la
cui
figura
appare
come
un
Buddha
in
un
territorio
assai
poco
indiano,
e
il
fanatico
dell'attacco,
mortale
nemico
dei
teologi
e
dei
sacerdoti,
che
la
malizia
di
Renan
ha
glorificato
come
«le
grand
maitre
en
ironie».
Io
stesso
non
dubito
che
una
grande
quantità
di
fiele
(e
persino
di
esprit)
si
sia
riversata
sul
tipo
del
maestro
solo
per
lo
stato
agitato
della
propaganda
cristiana:
perché
si
conosce
bene
la
risolutezza
di
tutti
i
settari
nel
costruire
la
propria
apologia
a
partire
dal
proprio
maestro.
Quando
la
prima
comunità
ebbe
bisogno
di
un
teologo
maligno
e
cavilloso,
che
giudicasse,
si
lamentasse
e
si
incollerisse,
contro
i
teologi,
si
creò
il
proprio
«Dio»
in
base
alle
proprie
esigenze:
e
nello
stesso
tempo
mise
senza
esitazione
nella
sua
bocca
concetti
totalmente
contrari
al
Vangelo,
di
cui
ora
non
poteva
più
fare
a
meno:
la
«seconda
venuta»,
il
«giudizio
finale»
e
ogni
sorta
di
speranze
e
promesse
temporali.


XXXII


Mi
oppongo,
lo
ripeto,
a
che
si
unisca
il
fanatico
al
tipo
del
Redentore:
il
termine
imperìéux
che
Renan
utilizza
da
solo
annulla
già
di
per
se
stesso
il
tipo.
La
«buona
novella»
significa
esatta-
mente
che
non
ci
sono
più
contrasti;
il
Regno
dei
Cieli
appartiene
ai
fanciulli;
la
fede
che
qui
si
rivela
non
è
una
fede
conquistata
con
le
lotte:
c'è,
è
fin
dal
principio,
è,
per
così
dire,
un
infantilismo
che
ritorna
a
ciò
che
è
spirituale.
Il
fenomeno
di
una
pubertà
ritardata
che
non
si
sviluppa
nell'organismo,
come
effetto
della
degenerazione,
è
familiare
almeno
ai
fisiologi.
Tale
fede
non
si
adira,
non
biasima,
non
difende
se
stessa:
non
porta
«la
spada»,
non
immagina
fino
a
che
punto
un
giorno
potrebbe
provocare
una
frattura.
Non
si
prova
con
miracoli
o
con
ricompense
e
promesse,
e
certo
non
«mediante
le
Scritture»:
essa
stessa
è
in
ogni
momento
il
suo
miracolo,
la
sua
ricompensa,
la
sua
prova,
il
suo
«Regno
di
Dio».
Questa
fede
non
si
formula:
essa
vive,
si
oppone
alle
formule.
Il
caso
certamente
determina
l'ambiente,
la
lingua,
la



formazione
di
una
particolare
cerchia
di
concetti:
il
cristianesimo
primitivo
impiega
unicamente
concetti
giudaico-semiti
(il
mangiare
e
il
bere
alla
comunione
appartengono
a
essi;
concetti
di
cui
la
Chiesa
ha
abusato
malevolmente,
come
di
tutto
ciò
che
è
giudaico).
Ma
ci
si
deve
guardare
dal
considerare
in
ciò
più
che
un
linguaggio
dei
segni,
una
semiotica,
un'occasione
per
formulare
parabole.
Infatti
per
questo
antirealista
la
condizione
per
poter
parlare
era
che
non
una
parola
venisse
presa
alla
lettera.
Tra
gli
indiani
si
sarebbe
servito
dei
concetti
del
Sankhya,
tra
i
cinesi
di
quelli
di
Laotze,
senza
percepire
alcuna
differenza
tra
loro.
Con
una
certa
tolleranza
d'espressione
si
potrebbe
definire
Gesù
uno
«spirito
libero»,
non
gli
importa
alcunché
di
tutto
ciò
che
è
fisso:
la
parola
uccide,
tutto
ciò
che
è
fisso
uccide.
Il
concetto,
l'esperienza
della
«vita»
nel
solo
modo
in
cui
li
comprende
si
oppongono
a
ogni
sorta
di
parola,
di
formula,
di
legge,
di
fede
e
di
dogma.
Parla
solo
delle
cose
più
intime:
«vita»
o
«verità»
o
«luce»
sono
le
sue
parole
per
questa
dimensione
più
interiore;
tutto
il
resto,
la
realtà
nel
suo
complesso,
l'intera
natura,
il
linguaggio
stesso,
possiedono
per
lui
solo
valore
di
segno
o
di
parabola.
In
questo
caso
non
bisogna
assolutamente
commettere
errori,
per
quanto
sia
grande
la
tentazione
insita
nei
pregiudizi
cristiani,
intendo
dire
ecclesiastici:
tale
simbolismo
par
excellence
si
trova
al
di
fuori
di
ogni
religione,
di
ogni
concetto
di
culto,
di
ogni
scienza
storica
e
naturale,
di
ogni
esperienza
del
mondo,
di
ogni
conoscenza,
di
ogni
politica,
di
ogni
psicologia,
di
ogni
libro,
di
ogni
arte;
la
sua
«sapienza»
risiede
proprio
nella
assoluta
ignoranza
del
fatto
che
esistano
simili
cose.
La
cultura
non
gli
è
nota
neanche
per
sentito
dire,
non
ha
bisogno
di
combatterla,
non
la
nega...
Lo
stesso
vale
per
lo
stato,
l'intero
ordinamento
civile
e
la
società
civile,
il
lavoro,
la
guerra:
egli
non
ebbe
mai
alcun
motivo
per
negare
«il
mondo»,
non
ha
mai
sospettato
del
concetto
ecclesiastico
di
«mondo»...
La
negazione
è
per
lui
cosa
totalmente
impossibile.
Allo
stesso
modo
manca
la
dialettica,
manca
l'idea
che
una
fede,
una
«verità»
possano
essere
provate
da
ragioni
(le
sue
prove
sono
«luci»
interiori,
intime
sensazioni
di
piacere
e
affermazioni
di
sé,
nient'altro
che
«prove
di
forza»).
Una
tale
dottrina
non
può
contraddire:
essa
non
comprende
in
alcun
modo
che
esistano
altre
dottrine,
che
altre
dottrine
possano
esistere,
non
riesce
a
immaginare
in
alcun
modo
un
giudizio
differente
dal
proprio...
Dove
ne
incontrerà
uno
una,
ne
piangerà
la
«cecità»
con
intima
partecipazione,
poiché
essa
vede
la
«luce»,
ma
non
solleverà
obiezioni...



XXXIII


Nell'intera
psicologia
del
Vangelo
è
assente
il
concetto
di
colpa
e
di
punizione,
e
allo
stesso
modo
manca
quello
di
ricompensa.
Il
«peccato»,
ogni
rapporto
di
distacco
tra
Dio
e
l'uomo,
viene
abolito,
è
proprio
questa
la
«buona
novella».
La
beatitudine
non
viene
promessa,
non
è
legata
ad
alcuna
condizione:
è
la
sola
realtà,
il
resto
è
solo
un
complesso
di
segni
per
parlare
di
essa...
Le
conseguenze
di
questo
stato
si
riflettono
in
una
nuova
pratica,
l'autentica
pratica
evangelica.
Non
è
la
«fede»
che
distingue
il
cristiano:
il
cristiano
agisce,
distinguendosi
per
un
diverso
modo
di
agire.
Non
ripaga

con
le
parole

con
il
cuore
colui
che
gli
arreca
del
male.
Non
fa
distinzione
fra
straniero
e
indigeni,
tra
ebrei
e
non
ebrei
(il
«prossimo»
è
propriamente
il
compagno
di
fede,
l'ebreo).
Non
si
adira
con
alcuno,
non
disprezza
alcuno.
Non
si
presenta
nei
tribunali

si
avvale
di
essi
(«Non
prestare
giuramento»).
In
nessuna
circostanza,
nemmeno
in
caso
di
provata
infedeltà,
divorzia
da
sua
moglie.
Tutto
questo
è
in
fondo
un
solo
principio,
tutto
è
conseguenza
di
un
solo
istinto.


La
vita
del
Redentore
non
fu
altro
che
questa
pratica,
anche
la
sua
morte
non
fu
alcunché
di
diverso...
Non
aveva
più
bisogno
di
formule,

di
riti
per
il
suo
rapporto
con
Dio,
neppure
della
preghiera.
Egli
ha
chiuso
con
tutte
le
dottrine
ebraiche
della
penitenza
e
del
perdono;
sa
che
solamente
con
la
pratica
di
vita
ci
si
può
sentire
«divini»,
«benedetti»,
«evangelici»,
in
ogni
momento
«figli
di
Dio».

la
«penitenza»,

la
«preghiera
per
il
perdono»
sono
le
vie
verso
Dio:
solo
la
pratica
evangelica
porta
a
Dio,
è
proprio
Dio!
Ciò
che
venne
abolito
con
il
Vangelo
fu
il
giudaismo
dei
concetti
di
«peccato»,
«remissione
dei
peccati»,
«fede»,
«redenzione
per
mezzo
della
fede»,
l'intero
insegnamento
ecclesiastico
ebraico
fu
negato
nella
«buona
novella».
Il
profondo
istinto
di
come
si
debba
vivere
per
sentirsi
«in
cielo»,
per
sentirsi
«eterni»,
mentre
con
qualsiasi
altra
condotta
non
ci
si
sente
«in
cielo»:
solo
questa
è
la
realtà
psicologica
della
«redenzione».
Un
nuovo
modo
di
vivere,
non
una
nuova
fede...



XXXIV


Se
comprendo
qualcosa
di
questo
grande
simbolista
è
il
fatto
che
assunse
per
realtà,
per
«verità»,
esclusivamente
le
realtà
interiori
e
che
intese
tutto
il
resto,
tutto
ciò
che
è
naturale,
temporale,
spa-
ziale
e
storico,
soltanto
come
segni,
come
spunti
di
parabole.
Il
concetto
di
«figlio
dell'uomo»
non
è
una
persona
concreta
appartenente
alla
storia,
qualcosa
di
individuale,
di
unico,
ma
un
fatto
«eterno»,
un
simbolo
psicologico
affrancato
dalla
nozione
di
tempo.
Lo
stesso
vale,
nel
senso
più
elevato,
anche
per
il
Dio
di
questo
simbolista
tipico,
per
il
«regno
di
Dio»,
per
il
«regno
dei
Cieli»,
per
i
«figli
di
Dio».
Niente
è
più
acristiano
delle
grossolanità
ecclesiastiche,
di
un
Dio
come
persona,
di
un
«regno
di
Dio»
che
deve
venire,
di
un
«regno
dei
Cieli»
nell'aldilà,
di
un
«figlio
di
Dio»,
la
seconda
persona
della
Trinità.
Tutto
ciò,
mi
si
perdoni
l'e-
spressione,
è
un
pugno
nell'occhio,
oh
in
che
occhio!...
Quello
del
Vangelo:
un
cinismo
della
storia
del
mondo
nella
beffa
del
simbolo...
Ma
è
del
tutto
ovvio
(non
così
ovvio
per
tutti,
lo
ammetto)
ciò
a
cui
si
allude
con
i
simboli
di
«padre»
e
«figlio»:
con
la
parola
«figlio»
si
esprime
l'introduzione
nel
sentimento
della
trasfigurazione
generale
di
tutte
le
cose
(la
beatitudine),
con
la
parola
«padre»
questo
stesso
sentimento,
il
sentimento
di
eternità
e
di
compimento.
Mi
vergogno
di
ricordare
quello
che
la
Chiesa
ha
fatto
di
questo
simbolismo:
non
ha
forse
posto
una
sorta
d'Anfitrione
alla
soglia
della
«fede»
cristiana?
E
un
dogma
dell'«immacolata
concezione»
'
per
giunta?...
Ma
proprio
in
questo
modo
ha
macchiato
la
concezione.


Il
«regno
dei
Cieli»
è
una
condizione
del
cuore,
non
qualcosa
che
sia
«sopra
la
Terra»
o
viene
«dopo
la
morte».
Nel
Vangelo
manca
ogni
concetto
di
morte
naturale:
la
morte
non
è
un
ponte,

un
passaggio,
manca
perché
appartiene
a
un
mondo
apparente,
del
tutto
diverso,
utile
soltanto
per
i
segni.
L'«ora
della
morte»
non
è
un
concetto
cristiano,
l'«ora»,
il
tempo,
la
vita
fisica
e
le
sue
crisi,
non
esistono
nemmeno
per
il
maestro
della
«buona
novella»...
Il
«regno
di
Dio»
non
è
qualcosa
che
si
attende;
non
ha

ieri

domani,
non
viene
«tra
mille
anni»,
è
un'esperienza
di
cuore;
è
ovunque
e
in
nessun
luogo...



XXXV


Questo
«messaggero
della
buona
novella»
morì
come
aveva
vis-
suto,
e
come
aveva
insegnato,
non
per
«redimere
gli
uomini»,
ma
per
mostrare
come
si
deve
vivere.
Ciò
che
lasciò
in
eredità
all'u-
manità
è
la
pratica:
il
suo
contegno
dinanzi
ai
giudici,
alle
guardie,
agli
accusatori
e
a
ogni
sorta
di
calunnia
e
derisione,
il
suo
contegno
sulla
croce.
Non
reagisce,
non
difende
il
proprio
diritto,
non
fa
un
solo
passo
per
respingere
da

il
peggio,
anzi,
lo
provo-
ca...
Prega,
soffre,
ama
con
quelli
e
in
quelli
che
gli
fanno
del
male.
Le
parole
al
ladrone
sulla
croce
contengono
l'intero
Vangelo:
«Costui
era
davvero
un
uomo
divino,
un
figlio
di
Dio!»
dice
il
ladrone.
«Se
lo
credi
-risponde
il
redentore,
-tu
sei
in
paradiso,
anche
tu
sei
figlio
di
Dio».
Non
difendersi,
non
andare
in
collera,
non
attribuire
responsabilità...
Non
resistere
neppure
al
malvagio,
ma
amarlo...


XXVI


Soltanto
noi,
spiriti
emancipati,
possediamo
le
basi
per
compren-
dere
qualcosa
che
è
stato
frainteso
per
diciannove
secoli,
questa
integrità
divenuta
istinto
e
passione
che
fa
guerra
alla
«sacra
menzogna»
più
che
a
ogni
altra...
Si
era
indicibilmente
lontani
dalla
nostra
benevola
e
cauta
neutralità,
da
quella
disciplina
dello
spirito
con
la
quale
solamente
diventa
possibile
indovinare
cose
tanto
strane
e
sottili:
in
ogni
tempo
si
è
voluto
con
sfacciato
egoismo
cercare
in
queste
cose
soltanto
il
proprio
vantaggio;
si
è
costruita
la
Chiesa
in
contraddizione
con
il
Vangelo.
Chiunque
cercasse
la
prova
di
un'ironica
divinità
all'opera
dietro
al
grande
dramma
universale
troverebbe
un
non
piccolo
appiglio
nell'enorme
punto
interrogativo
che
si
chiama
cristianesimo.
L'umanità
si
inginocchia
davanti
all'opposto
di
ciò
che
era
l'origine,
il
significato,
il
diritto
del
Vangelo;
ha
santificato
nel
concetto
di
«Chiesa»
proprio
ciò
che
il
«messaggero
della
buona
novella»
considerava
al
di
sotto



di
sé,
dietro
di
sé.
Invano
si
cerca
una
formula
più
importante
di
ironia
della
storia
del
mondo.


XXXVII


La
nostra
epoca
è
orgogliosa
del
suo
senso
storico:
come
potè
credere
all'assurda
nozione
che
all'origine
del
cristianesimo
stiano
la
favola
del
taumaturgo
e
del
Redentore,
e
che
tutto
ciò
che
in
esso
è
spirituale
e
simbolico
non
sia
solo
uno
sviluppo
successivo?
Al
contrario:
la
storia
del
cristianesimo,
dalla
morte
in
croce,
è
la
storia
del
fraintendimento
di
un
simbolismo
originario
che
è
pro-
gressivamente
diventato
sempre
più
grossolano.
Man
mano
che
il
cristianesimo
si
diffondeva
fra
masse
sempre
più
vaste,
sempre
più
primitive,
che
sempre
più
si
allontanavano
dalle
condizioni
in
cui
era
sorto,
era
necessario
volgarizzare
e
barbarizzare
il
cristianesimo.
Quest'ultimo
ha
assorbito
le
dottrine
e
i
riti
di
tutti
i
culti
sotter-
ranei
dell'imperium
romanum
e
le
assurdità
di
ogni
sorta
di
mente
malata.
Il
destino
del
cristianesimo
sta
nella
necessità
che
la
sua
stessa
fede
diventi
tanto
malata,
bassa
e
volgare
quanto
malati,
bassi
e
volgari
erano
i
bisogni
che
doveva
soddisfare.
La
stessa
bar-
barie
malsana
alla
fine
costruisce
il
proprio
potere
come
Chiesa;
la
Chiesa,
questa
forma
di
ostilità
mortale
verso
ogni
rettitudine,
verso
ogni
elevatezza
dell'anima,
verso
ogni
disciplina
dello
spirito,
verso
ogni
umanità
sincera
e
buona.
I
valori
cristiani,
i
valori
nobili:
noi
per
primi,
spiriti
emancipati,
abbiamo
ristabilito
la
più
grande
contrapposizione
di
valori,
la
più
grande
che
ci
sia!


XXXVIII


A
questo
punto
non
posso
fare
a
meno
di
esalare
un
sospiro.
Vi
sono
giorni
in
cui
sono
ossessionato
da
un
sentimento
più
tetro



della
più
nera
malinconia:
il
disprezzo
per
gli
uomini.
E
per
non
lasciare
alcun
dubbio
su
ciò
che
disprezzo
e
su
chi
disprezzo,
dirò
che
si
tratta
dell'uomo
di
oggi,
del
quale
sono
fatalmente
con-
temporaneo.
L'uomo
di
oggi:
soffoco
a
causa
del
suo
alito
impuro...
Come
ogni
uomo
di
cultura,
nei
riguardi
del
passato
io
sono
assai
tollerante,
ossia
mi
controllo
generosamente:
attraverso
millenni
di
un
mondo
di
pazzi,
con
tetra
circospezione,
si
chiami
esso
«cristianesimo»,
«fede
cristiana»,
«Chiesa
cristiana»,
mi
guardo
dall'attribuire
al
genere
umano
la
responsabilità
delle
sue
malattie
mentali.
Ma
il
mio
sentimento
d'un
tratto
cambia
e
prorompe,
non
appena
m'addentro
nell'età
moderna,
nella
nostra
epoca.
Il
nostro
tempo
è
un
tempo
che
sa...
Ciò
che
un
tempo
era
soltanto
malato
oggi
è
diventato
indecente,
essere
cristiani
oggi
è
indecente.
Ed
è
qui
che
ha
inizio
il
mio
disgusto.
Mi
guardo
attorno:
non
una
parola
è
rimasta
di
ciò
che
un
tempo
si
chiamava
«verità»,
non
sopportiamo
neppure
più
che
un
sacerdote
pronunci
la
parola
«verità».
Sia
pure
secondo
le
più
modeste
esigenze
di
rettitudine,
oggi
bisogna
sapere
che
un
teologo,
un
sacerdote
o
un
papa,
a
ogni
frase
che
pronuncia
non
è
solo
in
errore,
ma
mente;
che
non
è
più
libero
di
mentire
«innocentemente»,
per
«ignoranza».
Il
sacerdote
sa
come
chiunque
altro
che
non
v'è
più

«Dio»,

«peccatore»,

«Redentore»;
che
il
«libero
arbitrio»
e
1'«ordine
morale
del
mondo»
sono
menzogne;
la
serietà
e
la
radicale
vittoria
spirituale
su
disé
non
permettono
più
ad
alcuno
di
essere
ignorante
su
questo
aspetto...
Tutti
i
concetti
della
Chiesa
sono
riconosciuti
per
quello
che
sono:
le
più
perfide
falsificazioni
che
esistano,
allo
scopo
di
svalutare
la
natura
e
i
valori
naturali:
il
sacerdote
stesso
è
riconosciuto
per
quello
che
è:
la
specie
più
pericolosa
di
parassita,
il
vero
ragno
velenoso
della
vita...
Sappiamo,
la
nostra
coscienza
lo
sa,
quanto
valgano
oggi
e
a
che
servivano
queste
sinistre
invenzioni
dei
sacerdoti
e
della
Chiesa,
con
le
quali
è
stato
raggiunto
quello
stato
di
autoprofanazione
dell'umanità,
la
cui
vista
può
suscitare
disgusto:
i
concetti
di
«aldilà»,
«giudizio
finale»,
«immortalità
dell'anima»,
di
«anima»
stessa,
sono
strumenti
di
tortura,
sistemi
di
crudeltà
di
cui
si
servirono
i
sacerdoti
per
diventare
e
rimanere
padroni...
Lo
sanno
tutti:
eppure
tutto
rimane
immutato.
Dove
è
dunque
andato
a
finire
l'ultimo
senso
di
decoro
e
di
rispetto
di
sé,
quando
persino
i
nostri
uomini
di
stato,
un
razza
di
uomini
assai
spregiudicata,
di
fatto
completamente
anticristiani,
si
definiscono
ancora
oggi
cristiani
e
prendono
parte
all'eucaristia?...
Un
giovane
principe
alla
testa
dei
suoi
reggimenti,
magnifica
espressione



dell'egoismo
e
dell'orgoglio
del
suo
popolo,
ma
che
senza
alcuna
vergogna
si
professa
cristiano!...
Chi
nega
dunque
questo
cristianesimo?
Che
cosa
è
per
esso
il
«mondo»?
L'essere
soldato,
giudice,
patriota;
il
difendersi;
il
custodire
il
proprio
onore;
il
volere
il
proprio
vantaggio;
l'essere
orgoglioso...
Tutta
la
prassi
di
ogni
momento,
di
ogni
istinto,
di
ogni
valutazione
che
diventa
azione
oggi
sono
anticristiani:
che
mostro
di
falsità
deve
essere
l'uomo
moderno,
che
nonostante
tutto
non
si
vergogna
di
chiamarsi
ancora
cristiano!


XXXIX


Faccio
un
passo
indietro
e
racconto
la
vera
storia
del
cristianesi-
mo.
La
parola
«cristianesimo»
è
già
un
equivoco;
in
realtà
c'è
stato
un
solo
cristiano
ed
è
morto
sulla
croce.
Il
Vangelo
è
morto
sulla
croce.
Ciò
che
si
chiamò
Vangelo
da
quel
momento
in
poi
era
già
l'opposto
di
ciò
che
egli
aveva
vissuto:
una
cattiva
novella,
un
dysangelium.
È
falso
fino
all'assurdo
il
vedere
in
una
«fede»,
per
esempio
nella
fede
della
redenzione
per
mezzo
di
Cristo,
la
caratteristica
peculiare
del
cristiano:
solo
la
pratica
cristiana,
una
vita
come
quella
che
visse
colui
che
morì
sulla
croce,
questo
è
cristiana...
Ancora
oggi
è
possibile
una
vita
simile,
e
per
certi
uomini
persino
necessaria:
il
cristianesimo
autentico
e
originario
sarà
possibile
in
ogni
tempo...
Non
una
fede,
ma
un
fare,
soprattutto
un
non-fare
alcune
cose,
un
altro
essere...
Gli
stati
della
coscienza,
una
fede
qualsiasi,
per
esempio
ritenere
vera
qualcosa,
e
lo
psicologo
lo
sa,
sono
questioni
assolutamente
indifferenti
e
di
quint'ordine
rispetto
al
valore
degli
istinti:
per
parlare
in
modo
più
rigoroso,
l'intero
concetto
di
causalità
spirituale
è
falso.
Ridurre
l'essere
cristiano,
la
cristianità,
a
un
ritenere
per
vero,
a
un
mero
fenomenismo
della
coscienza,
significa
negare
la
cristianità.
In
realtà
non
sono
affatto
esistiti
dei
cristiani.
Il
«cristiano»,
quello
che
per
duemila
anni
è
stato
definito
cristiano,
è
soltanto
un
autofraintendimento
psicologico.
Se
lo
si
considera
più
attentamente,
in
lui
dominavano,
nonostante
la
«fede»,
solamente
gli
istinti,
e
che
istinti!
In
tutte
le
epoche,
per
esempio
per
Lutero,



la
«fede»
è
stata
solo
una
copertura,
un
pretesto,
un
velo
dietro
al
quale
gli
istinti
facevano
il
loro
gioco,
un'astuta
cecità
sul
dominio
di
certi
istinti...
La
«fede»
(l'ho
già
definita
la
vera
astuzia
cristiana),
si
è
sempre
parlato
di
fede,
ma
si
è
sempre
agito
solo
d'istinto...
Nel
mondo
delle
idee
cristiane
non
esiste
alcunché
che
abbia
anche
soltanto
sfiorato
la
realtà:
all'opposto
noi
abbiamo
riconosciuto
nell'odio
istintivo
contro
la
realtà
l'elemento
guida,
l'unico
elemento
trainante
che
sta
alla
radice
del
cristianesimo.
Che
cosa
ne
deriva?
Che
qui,
anche
in
psycologicis,
l'errore
è
radicale,
vale
a
dire
essenzialmente
determinante,
ovvero
è
la
sostanza.
Si
rimuova
qui
un
solo
concetto,
lo
si
sostituisca
con
una
singola
realtà,
tutto
il
cristianesimo
crollerà
nel
vuoto!
Visto
dall'alto
questo
stranissimo
fatto,
una
religione
determinata
non
solo
da
errori
ma
ingegnosa
e
persino
geniale
solo
in
errori
nocivi,
solo
in
errori
che
avvelenano
la
vita
e
il
cuore,
resta
uno
spettacolo
per
gli
dèi,
per
quelle
divinità
che
sono
al
medesimo
tempo
filosofi
e
che,
per
esempio,
ho
ritrovato
nei
famosi
dialoghi
di
Nasso.
Nel
momen-
to
in
cuiil
disgusto
li
abbandona
(e
abbandona
anche
noi!),
sono
grati
per
lo
spettacolo
offerto
loro
dal
cristiano:
forse
è
solo
per
questo
caso
curioso
che
il
piccolo
patetico
astro
chiamato
Terra
merita
uno
sguardo
e
una
partecipazione
divini...
Perciò
non
sot-
tovalutiamo
il
cristiano:
il
cristiano,
falso
fino
all'innocenza,
sorpassa
di
molto
la
scimmia;
per
quanto
concerne
i
cristiani,
una
nota
teoria
sulla
discendenza
diviene
una
pura
benevolenza...


XL


II
destino
del
Vangelo
fu
deciso
con
la
morte,
era
sospeso
alla
«croce»...
Soltanto
la
morte,
quella
morte
inaspettata
e
ignobile,
soltanto
la
croce,
generalmente
riservata
alla
canaglia,
questo
ter-
ribile
paradosso
mise
i
discepoli
di
fronte
al
vero
mistero:
«Chi
era
costui?
Che
senso
aveva
ciò?».
Si
comprende
fin
troppo
bene
il
loro
stato
d'animo:
sentirsi
scossi
e
offesi
nel
più
profondo,
il
sospetto
che
una
morte
simile
potesse
essere
la
confutazione
della
loro
causa:
il
terribile
interrogativo:
«Perché
è
stato
proprio
così?».
Qui
tutto
doveva
essere
necessario,
doveva
avere
un
significato,
una



ragione,
una
ragione
suprema:
l'amore
di
un
discepolo
non
conosce
il
caso.
Solo
allora
si
spalancò
l'abisso:
«Chi
lo
ha
ucciso?
Chi
era
il
suo
nemico
naturale?».
Questa
domanda
balenò
come
un
fulmine.
Risposta:
il
giudaismo
dominante,
la
sua
classe
più
elevata.
Da
quel
momento
si
trovarono
in
dissenso
con
l'ordine
e
quindi
si
considerò
Gesù
come
un
ribelle
contro
l'ordine
precostituito.
Fino
ad
allora
questo
tratto
aggressivo
e
negativo,
nelle
parole
e
nelle
azioni,
non
era
stato
presente
nella
sua
immagine:
anzi,
egli
ne
era
stato
l'antitesi.
Chiaramente
la
piccola
comunità
non
aveva
compreso
la
cosa
principale,
il
suo
modo
esemplare
di
morire,
la
libertà,
la
superiorità
rispetto
a
ogni
sentimento
di
ressentiment:
un
segno
di
quanto
poco
lo
capiva!
Gesù
con
la
propria
morte
in

non
poteva
volere
altro
che
offrire
pubblicamente
la
prova
più
forte,
la
dimostrazione
del
suo
insegnamento...
Ma
i
suoi
discepoli
erano
ben
lungi
dal
perdonare
questa
morte,
il
che
sarebbe
stato
eminentemente
evangelico;
o
addirittura
dall’offrirsi
a
una
morte
simile
con
dolce
e
mite
pace
nel
cuore...
Riaffiorò
proprio
il
più
antievangelico
dei
sentimenti,
la
vendetta.
Il
caso
non
poteva
affatto
chiudersi
con
questa
morte:
erano
indispensabili
una
«vendetta»,
un
«giudizio»
(eppure
cosa
c'è
di
più
antievangelico
della
«vendetta»,
del
«castigo»
e
del
«giudicare»?).
L'aspettativa
popo-
lare
di
un
Messia
tornò
ancora
una
volta
in
primo
piano;
si
mise
a
fuoco
un
momento
storico:
il
«regno
di
Dio»
viene
per
giudicare
i
suoi
nemici...
Ma
così
si
è
frainteso
tutto:
il
«regno
di
Dio»,
inteso
come
atto
finale,
come
promessa!
Il
Vangelo
era
stato
invece
proprio
l'esistenza,
il
compimento,
la
realtà
di
quel
«regno».
La
morte
di
Cristo
era
proprio
quel
«regno
di
Dio».
Soltanto
allora
tutto
quel
disprezzo
e
quell'amarezza
contro
i
farisei
e
i
teologi
vennero
attribuiti
al
carattere
del
Maestro,
e
così
Rifece
di
lui
un
fariseo
e
un
teologo!
D'altra
parte,
l'esacerbante
venerazione
di
quelle
anime
completamente
confuse
non
ammetteva
più
il
diritto
evangelico
di
ognuno
di
essere
figlio
di
Dio,
un
diritto
predicato
da
Gesù;
e
la
loro
vendetta
consistette
nell’
esaltare
Gesù
in
modo
improprio,
nel
separarlo
da

stessi:
proprio
come
gli
ebrei
che,
nel
passato,
per
vendetta
sui
loro
nemici
avevano
separato

stessi
dal
loro
Dio
e
lo
avevano
innalzato
al
massimo
grado.
Il
Dio
unico
e
figlio
unico
di
Dio:
entrambi
sono
il
prodotto
del
ressentiment…



XLI


A
quel
punto
si
presentò
un
problema
assurdo:
«Come
aveva
potuto
Dio
permettere
ciò?».
La
ragione
turbata
della
piccola
comunità
trovò
una
risposta
a
questa
domanda
davvero
assurda
e
terribile:
Dio
offrì
suo
figlio
in
sacrificio
per
la
remissione
dei
peccati.
Come
finì
in
un
solo
istante
il
Vangelo!
II
sacrificio
espiatorio,
per
giunta
nella
sua
forma
più
ripugnante
e
barbara,
il
sacrificio
di
un
uomo
innocente
per
le
colpe
dei
peccatori!
Che
atroce
paganesimo!
Gesù
non
aveva
abolito
persino
il
concetto
stesso
di
«colpa»?
Non
aveva
negato
l'abisso
tra
Dio
e
l'uomo,
non
aveva
vissuto
quest'unità
tra
Dio
e
l'uomo
come
la
sua
«buona
novel-
la»?...
E
non
come
un
privilegio!
A
partire
da
quel
momento
ci
si
addentrò
passo
dopo
passo
nel
tipo
del
Redentore:
la
dottrina
del
giudizio
e
della
seconda
venuta,
la
dottrina
della
sua
morte
come
morte
sacrificale,
la
dottrina
della
resurrezione
che
abolisce
l'intero
concetto
di
«beatitudine»,
l'intera
e
unica
realtà
del
Vangelo,
a
vantaggio
di
uno
stato
dopo
la
morte!...
Paolo,
con
quell'impu-
denza
rabbinica
che
lo
caratterizza
in
ogni
cosa,
razionalizzò
così
quest'interpretazione
(un'interpretazione
sfacciata):
«Se
Cristo
non
è
risorto
dalla
morte
la
nostra
fede
è
vana»
'.
E
d'un
tratto
il
Vangelo
divenne
la
più
spregevole
di
tutte
le
promesse
irrealizzabili,
l'incredibile
dottrina
dell'immortalità
personale...
Paolo
stesso
la
predicò
anche
come
una
ricompensa!...


XLII


Si
può
ben
capire
cosa
aveva
fine
con
la
morte
sulla
croce:
un
nuovo
tentativo
del
tutto
originario
per
un
movimento
buddhista
di
pace,
per
una
reale
e
non
solo
promessa
felicità
sulla
Terra.
Poiché
questa
rimane,
l'ho
già
sottolineato,
la
differenza
fondamentale
tra
le
due
religioni
della
décadence:
il
buddhismo
non
promette,
ma
mantiene;
il
cristianesimo
promette
tutto
e
non
mantiene
nulla.
Alla
«buona
novella»
seguì
la
peggiore
di
tutte:
quella
di
Paolo.
In
Paolo
s'incarna
il
tipo
opposto
al
«messaggero
della
buona



novella»,
il
genio
dell'odio,
nella
visione
dell'odio,
nell'inesorabile
logica
dell'odio.
Che
cosa
non
sacrificò
all'odio
questo
disangelista?
Innanzi
tutto
il
Redentore:
lo
inchiodò
alla
sua
croce.
La
vita,
l'esempio,
l'insegnamento,
la
morte,
il
significato
e
il
diritto
dell'intero
Vangelo:
non
esisteva
altro
che
ciò
che
intendeva
nel
suo
odio
questo
falsario,
ciò
che
poteva
servirgli.
Non
la
realtà,
non
la
verità
storica!...
E
ancora
una
volta
l'istinto
sacerdotale
dell'ebreo
perpetrò
l'identico
grande
crimine
contro
la
storia,
cancellò
semplicemente
lo
ieri
e
l'avantieri
del
cristianesimo,
s'inventò
una
storia
del
cristianesimo
primitivo.
Di
più:
ancora
una
volta
falsificò
la
storia
d'Israele,
così
che
tale
storia
potesse
apparire
come
la
preistoria
dei
suoi
atti:
tutti
i
profeti
hanno
parlato
del
suo
«Redentore»...
La
Chiesa
successivamente
falsificò
persino
la
storia
dell'umanità
per
farne
la
preistoria
del
cristia-
nesimo...
Il
tipo
del
Redentore,
la
dottrina,
la
pratica,
la
morte,
il
significato
della
morte,
persino
il
tempo
successivo
alla
morte,
nulla
rimase
intatto,
non
restò
alcunché
che
recasse
almeno
una
somiglianza
con
la
realtà.
Paolo
spostò
semplicemente
il
centro
di
gravita
di
tutta
quell'esistenza
dietro
di
essa,
nella
menzogna
del
Gesù
«risorto».
In
fondo
non
poteva
assolutamente
servirsi
della
vita
del
Redentore,
aveva
bisogno
della
morte
sulla
croce
e
di
qualcosa
di
più...
Considerare
Paolo
una
persona
onesta,
lui
che
come
patria
ebbe
il
principale
centro
dell'illuminismo
stoico,
quando
con
un'allucinazione
si
dava
la
prova
dell'esser-ancora-vivo
del
redentore.
O
persino
credere
al
fatto
che
ebbe
quella
allucinazione
sarebbe
una
vera
niaiserie
per
uno
psicologo.
Paolo
voleva
il
fine,
quindi
voleva
anche
i
mezzi...
Ciò
che
lui
stesso
non
credeva
lo
credettero
gli
idioti
tra
i
quali
partorì
la
sua
dottrina.
Il
potere
era
il
suo
bisogno;
con
Paolo,
il
sacerdote
mirò
nuovamente
al
potere,
poteva
utilizzare
soltanto
quei
concetti,
quegli
insegnamenti
e
quei
simboli
con
cui
si
tiranneggiano
le
masse
e
si
formano
le
greggi.
Quale
fu
l'unica
cosa
che
Maometto
più
tardi
prese
in
prestito
dal
cristianesimo?
L'invenzione
di
Paolo,
il
suo
mezzo
per
istituire
una
tirannia
sacerdotale,
per
formare
il
gregge:
la
fede
nell'immortalità,
ossia
la
dottrina
del
«giudizio»...



XLIII


Se
si
pone
il
baricentro
della
vita
non
nella
vita,
ma
nell'«aldilà»,
nel
nulla,
si
è
privata
la
vita
del
suo
centro
di
gravita.
La
grande
menzogna
dell'immortalità
personale
distrugge
ogni
razionalità,
ogni
natura
dell'istinto;
tutto
ciò
che
negli
istinti
vi
è
di
benefico,
di
vitale;
tutto
ciò
che
negli
istinti
promette
il
futuro,
ora
suscita
diffidenza.
Vivere
in
modo
tale
da
non
avere
«senso»
per
vivere:
questo
ora
diventa
il
«significato»
della
vita...
A
che
scopo
la
coscienza
sociale,
a
che
scopo
la
gratitudine
per
la
nascita
e
verso
gli
antenati,
a
che
scopo
la
cooperazione
e
la
fiducia,
a
che
scopo
allora
l'avere
presente
e
il
promuovere
il
benessere
generale?...
Altrettante
«tentazioni»,
deviazioni
dalla
«retta
via»,
«una
cosa
sola
è
necessaria»...
che,
in
quanto
«anima
immortale»,
ognuno
sia
uguale
ad
ogni
altro,
che
nella
totalità
degli
esseri
la
«salvezza»
di
ogni
singolo
possa
reclamare
un'importanza
eterna,
che
i
piccoli
bigotti
e
i
folli
per
tre
quarti
possano
immaginare
che
per
essi
si
infrangano
costantemente
le
leggi
della
natura;
una
tale
crescita
di
tutti
gli
egoismi
fino
all'infinito,
fino
all'impudenza,
non
sarà
mai
segnalata
con
sufficiente
disprezzo.
Eppure
è
a
questa
miserabile
lusinga
della
vanità
personale
che
il
cristianesimo
deve
la
sua
vittoria,
con
questo
strumento
ha
portato
dalla
sua
parte
tutti
i
malriusciti,
le
menti
ribelli,
i
derelitti,
tutta
la
feccia
e
i
rifiuti
del-
l'umanità.
La
«salvezza
dell'anima»,
o
in
parole
povere:
«il
mondo
gira
attorno
a
me»...
Il
veleno
della
dottrina
«diritti
uguali
per
tutti»,
questo
più
di
ogni
altra
cosa
è
stato
propagato
fon-
damentalmente
dal
cristianesimo:
dai
più
segreti
recessi
dei
cattivi
istinti
il
cristianesimo
ha
sostenuto
una
guerra
a
morte
contro
ogni
sentimento
di
rispetto
e
di
distacco
tra
uomo
e
uomo,
cioè
contro
la
premessa
di
ogni
elevazione,
di
ogni
incremento
culturale,
ha
forgiato
col
ressentiment
delle
masse
la
sua
arma
principale
contro
di
noi,
contro
quanto
sulla
terra
vi
è
di
nobile,
gioioso,
e
generoso,
contro
la
nostra
felicità
sulla
terra...
Accordare
r«immortalità»
a
un
Pietro
o
a
un
Paolo
è
stato
il
più
grande
e
il
più
malvagio
attentato
perpetrato
fino
ad
oggi
contro
il
genere
umano
nobile.
E
non
sottovalutiamo
la
sorte
avversa
che
dal
cristianesimo
ha
strisciato
fino
alla
politica!
Nessuno
oggi
ha
più
il
coraggio
dei
privilegi
o
dei
diritti
di
governare,
il
diritto
del
sentimento
di
rispetto
verso
se
stesso
e
verso
il
prossimo,
un
pathos
della
distanza...
La
nostra
politica
è
malata
da
questa
mancanza
di



coraggio!
L'aristocrazia
del
carattere
è
stata
subdolamente
minata
dalla
menzogna
dell'uguaglianza
delle
anime;
e
se
la
fede
nei
«privilegi
della
maggioranza»
crea
e
creerà
rivoluzioni,
senza
dubbio
è
il
cristianesimo,
sono
le
valutazioni
cristiane
che
tra-
sformano
ogni
rivoluzione
solo
in
sangue
e
crimine!
Il
cristianesimo
è
una
rivolta
di
tutto
ciò
che
striscia
contro
tutto
ciò
che
è
elevato:
il
Vangelo
degli
«umili»
rende
miserabili...


XLIV


I
Vangeli
sono
documenti
inestimabili
in
quanto
testimonianza
dell'inarrestabile
corruzione
all'interno
delle
prime
comunità.
Tuttavia
ciò
che
Paolo
più
tardi
portò
a
buon
fine,
con
il
suo
cinismo
logico
da
rabbino,
fu
soltanto
il
processo
di
declino
che
iniziò
con
la
morte
del
Redentore.
Non
si
leggeranno
mai
con
sufficienti
cautele
questi
Vangeli:
ogni
parola
presenta
la
sua
difficoltà.
Confesso,
mi
si
perdoni,
che
proprio
per
questa
stessa
ragione
sono
per
lo
psicologo
un
diletto
di
prim'ordine,
come
opposto
di
ogni
ingenua
corruzione,
come
raffinatezza
par
excellence,
come
abilità
nella
corruzione
psicologica.
I
Vangeli
costituiscono
una
entità
a

stante.
La
Bibbia
in
generale
non
ammette
paragoni.
Si
è
tra
ebrei:
ecco
la
prima
considerazione
per
non
perdere
completamente
il
filo.
Tale
autodissimulazione
nel
«sacro»,
del
tutto
geniale
e
altrove
mai
eguagliata
neanche
lontanamente
nei
libri
e
tra
gli
uomini,
questa
coniazione
di
parole
e
di
gesti
falsi
in
qualità
di
arte
non
è
il
fenomeno
di
un
singolo
talento
o
di
una
natura
eccezionale.
Per
queste
cose
è
indispensabile
la
razza.
L'intero
giudaismo,
un'educazione
a
una
tecnica
giudaica
perseguiti
per
millenni
con
la
massima
serietà,
raggiunge
la
sua
perfezione
estrema
nel
cristianesimo,
l'arte
del
mentire
santamente.
Il
cristiano,
quell'ultima
ratio
della
menzogna,
è
ancora
una
volta,
anzi,
tre
volte
l'ebreo...
La
volontà
d'impiegare
per
principio
solo
concetti,
simboli,
atteggiamenti
provati
con
la
pratica
del
sacerdote,
il
rifiuto
istintivo
di
ogni
altra
pratica,
di
ogni
altro
tipo
di
prospettiva
di
valore
e
di
utilità:
questo
non
è
solo
tradizione,
ma
eredità:
solo
in
quanto
eredità,
opera
come
natura.
L'intera



umanità,
persino
le
menti
migliori
delle
epoche
migliori
(con
la
sola
eccezione
di
un
uomo,
che
forse
non
era
che
un
mostro)
si
sono
lasciati
ingannare.
Il
Vangelo
è
stato
letto
come
il
libro
dell'innocenza...
E
non
vi
si
rintraccia
nemmeno
il
minimo
riferimento
a
quanta
maestria
è
stata
necessaria
per
recitare
la
commedia.
Certo
se
potessimo
vedere,
anche
soltanto
di
sfuggita,
tutti
questi
bigotti
prodigiosi
e
questi
santi
artificiali,
sarebbe
la
fine.
Ed
è
proprio
perché
io
non
leggo
una
parola
senza
vedere
nel
contempo
gli
atteggiamenti
che
con
loro
ho
chiuso...
Hanno
un
modo
di
sollevare
gli
occhi
che
non
posso
sopportare.
Fortunatamente
per
la
maggior
parte
della
gente
i
libri
non
sono
che
letteratura.
Non
dobbiamo
lasciarci
ingannare:
dicono
«Non
giudicate!»
ma
nel
contempo
mandano
all'inferno
tutto
ciò
che
intralcia
il
loro
cammino.
Lasciando
che
sia
Dio
a
giudicare,
giu-
dicano
essi
stessi;
glorificando
Dio,
glorificano

stessi;
pretendendo
la
virtù
di
cui
essi
stessi
sono
capaci,
anzi
di
più,
quella
di
cui
hanno
bisogno
in
assoluto
per
rimanere
al
vertice,
si
danno
arie
come
se
lottassero
per
la
virtù,
come
se
combattessero
per
il
trionfo
della
virtù.
«Noi
viviamo,
moriamo,
ci
sacrifichiamo
per
il
bene»
(la
«verità»,
la
«luce»,
il
«regno
di
Dio»):
in
realtà
fanno
ciò
di
cui
non
possono
fare
a
meno.
Mentre
tirano
avanti
in
modo
ipocrita,
seduti
nei
loro
cantucci,
vivendo
nell'ombra
come
ombre,
si
fanno
di
tutto
questo
un
dovere:
l'umiltà
della
loro
vita
appare
loro
un
dovere,
è
una
prova
in
più
della
loro
devozione...
Ah,
questa
specie
di
umile,
casta,
misericordiosa
specie
di
menzogna!
«La
virtù
stessa
deve
testimoniare
per
noi».
Leggete
i
Vangeli
come
libri
di
seduzione
per
mezzo
della
morale:
questa
gente
meschina
ha
sequestrato
la
moralità;
essi
sanno
a
cosa
serve!
L'umanità
si
lascia
raggirare
meglio
con
la
morale!
In
realtà
qui
recita
la
commedia
della
modestia
la
più
consapevole
arroganza
degli
eletti:
una
volta
per
tutte
hanno
posto

stessi,
la
«comunità»,
il
«buono
e
giusto»
dalla
parte
della
«verità»
e
il
resto,
il
«mondo»,
dall'altra...
Questa
è
stata
la
più
funesta
forma
di
megalomania
mai
esistita
sulla
Terra:
piccoli
aborti
di
bigotti
e
impostori
cominciarono
a
impossessarsi
dei
concetti
di
«Dio»,
«verità»,
«luce»,
«spirito»,
«amore»,
«saggezza»,
«vita»,
quasi
fos-
sero
loro
sinonimi,
così
da
stabilire
la
separazione
tra
essi
e
il
«mondo»;
ebreucci
superlativi,
maturi
per
ogni
sorta
di
manico-
mio,
stravolsero
i
valori
per
adattarli
per
lo
più
a

stessi,
come
se
solo
il
«cristiano»
fosse
il
significato,
il
sale,
la
misura
e
anche
il
giudizio
finale
di
tutto
il
resto...
Tutta
questa
sciagura
fu
possibile



unicamente
perché
al
mondo
esisteva
già
una
megalomania
simile,
di
razza
affine,
quella
ebrea:
dal
momento
in
cui
si
spalancò
l'abisso
tra
ebrei
e
cristiani
circoncisi,
questi
ultimi
non
ebbero
altra
scelta
che
adottare
contro
gli
ebrei
gli
stessi
procedimenti
di
auto-
conservazione
suggeriti
dall'istinto
ebreo:
mentre
gli
ebrei
fino
ad
allora
li
avevano
assunti
solo
contro
tutto
ciò
che
non
era
ebraico.
Il
cristiano
non
è
altro
che
un
ebreo
di
confessione
«più
libera».


XLV


Fornisco
alcune
prove
di
ciò
che
questa
gente
meschina
si
è
messa
in
testa
e
di
ciò
che
ha
messo
in
bocca
al
loro
maestro:
sem-
plici
confessioni
di
«anime
belle».


«E
se
in
qualche
luogo
non
vi
ricevessero

vi
ascoltassero,
partitevi
di

e
scuotetevi
la
polvere
di
sotto
ai
vostri
piedi;
ciò
serva
di
testimonianza
contro
di
loro.
In
verità
vi
dico,
il
giorno
del
giudi-
zio
Sodoma
e
Gomorra
riceveranno
più
clemenza
di
quella
città»
(Marco
VI,
11).
Come
è
evangelico
ciò!...


«E
chiunque
avrà
offeso
uno
di
questi
piccoli
che
credono
in
me,
meglio
sarebbe
per
lui
che
gli
fosse
messa
al
collo
una
pietra
da
maci-
na,
e
fosse
gettato
in
mare»
(Marco
IX,
42).
Come
è
evangelico
ciò!...
«E
se
il
tuo
occhio
ti

motivo
di
scandalo,
cavalo;
meglio
è
per
te
entrare
con
un
occhio
solo
nel
regno
di
Dio,
che
aver
due
occhi
e
venire
gettato
fra
le
fiamme
infernali,
dove
il
verme
non
muore
e
il
fuoco
non
si
estingue»
(Marco
IX,
47-48).
Non
è
proprio
dell'occhio
che
qui
si
tratta...


«In
verità
vi
dico
che
alcuni
di
coloro
che
sono
qui
presenti
non
saggeranno
la
morte,
senza
avere
visto
il
regno
di
Dio
venire
con
potenza»
(Marco
IX,
1).
Bella
menzogna,
leone
...
«Chiunque
voglia
venire
dietro
a
me,
rinneghi
se
stesso,
prenda
la
sua
croce
e
mi
segua.
Perché...»
(Marco
VIII,
34-35)
(Osservazione
di
uno
psicologo:
la
morale
cristiana
è
confutata
dai
suoi
perché;
le
sue
«ragioni»
confutano,
questo
è
cristiano).



«Non
giudicate
acciocché
non
siate
giudicati.
Perché
con
la
misura
con
cui
misurate
sarete
misurati»
(Matteo
VIII,
1-2).
Che
idea
di
giu-
stizia,
di
un
giudice
«giusto»!...


«Poiché
se
amate
coloro
che
vi
amano,
che
premio
avrete?
Non
fanno
lo
stesso
anche
i
pubblicani?
E
se
fate
bene
soltanto
ai
vostri
fratelli,
cosa
fate
più
degli
altri
?
Non
fanno
lo
stesso
anche
i
pub-
blicani?»
(Matteo
V,
46-47).
Principio
dell'«amore
cristiano»:
vuole
essere
ben
pagato...


«Giacché
se
voi
non
perdonate
agli
uomini
neppure
voi
il
Padre
vostro
perdonerà
voi»
(Matteo
IV,
15).
Assai
compromettente
per
il
«padre»
in
questione...


«Cercate
prima
il
regno
di
Dio,
e
la
sua
giustizia;
e
tutte
queste
cose
vi
saranno
date
in
più»
(Matteo
VI,
33).
Tutte
queste
cose,
cioè:
cibo,
vestiario,
tutto
le
necessità
della
vita.
Un
errore,
per
usare
un'espressione
discreta...
Un
po'
prima
Dio
appare
come
sarto,
almeno
in
certi
casi....


«Rallegratevi
in
quel
giorno,
esaltate
di
gioia:
perché
il
vostro
pre-
mio
sarà
grande
nel
Cielo:
fecero
lo
stesso
i
loro
padri
ai
profeti»
(Luca
VI,
23).
Spudorate
canaglie!
Si
paragonano
già
ai
profeti...
«Non
sapete
voi
che
siete
il
tempio
di
Dio,
e
che
lo
spirito
di
Dio
dimora
in
voi?
Se
uno
distrugge
il
tempio
di
Dio,
Iddio
distruggerà
lui;
poiché
santo
è
il
tempio
di
Dio
e
questo
tempio
siete
voi»
(Paolo,
Prima
Lettera
ai
Corinzi
VI,
16-17).
Non
c'è
disprezzo
sufficiente
per
tali
concetti...


«Non
sapete
voi
che
i
santi
giudicheranno
il
mondo?
E
se
il
mondo
sarà
giudicato
da
voi,
siete
voi
indegni
di
giudicare
le
minime
cose?»
(Paolo,
Prima
Lettera
ai
Corinzi
VI,
2).
Sfortunatamente
questo
non
è
solo
il
delirio
di
un
pazzo...
Questo
spaventoso
impo-
store
prosegue
testualmente:
«Non
sapete
voi
che
giudicheremo
gli
angeli?
Tanto
più
allora
giudicheremo
i
beni
di
questa
vita»!
(Paolo,
Prima
Lettera
ai
Corinzi
VI,
5).


«Dio
non
ha
trasformato
la
sapienza
di
questo
mondo
in
stoltez-
za?
Poiché,
infatti,
nella
sapienza
di
Dio
il
mondo,
con
tutta
la
sua
sapienza,
non
ha
riconosciuto
Dio,
piacque
a
Dio
di
salvare
i
cre-
denti
con
la
stoltezza
della
predicazione...;
non
vi
sono
tra
voi
molti
sapienti
secondo
la
carne,

molti
potenti,

molti
nobili.
Ma
Dio
ha
scelto
ciò
che
nel
mondo
è
stolto
per
confondere
i



sapienti;
e
Dio
ha
scelto
ciò
che
nel
mondo
è
debole
per
confondere
i
forti;
e
Dio
ha
scelto
ciò
che
nel
mondo
è
ignobile
e
disprezzato,
ciò
che
è
nulla,
per
ridurre
a
nulla
le
cose
che
sono:
affinchè
nessun
uomo
possa
gloriarsi
davanti
a
Dio»
(Paolo,
Prima
Lettera
ai
Corinzi
I,
20
e
segg.).
Per
capire
questo
passo,
documento
di
primissimo
ordine
per
la
psicologia
di
ogni
morale
di
Ciandala,
si
legga
la
prima
parte
della
mia
Genealogia
della
morale,
dove
per
la
prima
volta
ho
sottolineato
l'opposizione
tra
una
morale
nobile
e
una
morale
da
Ciandala
sorta
dal
ressentiment
e
dalla
vendetta
impo-
tente.
Paolo
fu
il
più
grande
di
tutti
gli
apostoli
della
vendetta...


XLVI


Che
cosa
si
può
dedurre
da
tutto
ciò
?
Che
è
bene
mettersi
i
guanti
quando
si
legge
il
Nuovo
Testamento.
La
vicinanza
di
tanto
sudi-
ciume
quasi
lo
impone.
Eviteremmo
di
stare
in
compagnia
dei
«primi
cristiani»,
come
degli
ebrei
polacchi:
non
che
sia
necessario
esprimere
una
sola
obiezione
contro
di
loro...
Entrambi
non
emanano
un
buon
odore.
Invano
ho
cercato
nel
Nuovo
Testamento
anche
un
solo
tratto
simpatico:
non
v'è
in
esso
alcunché
di
libero,
buono,
franco
e
onesto.
Qui
l'umanità
non
ha
ancora
mosso
i
primi
passi,
manca
l'istinto
di
pulizia...
Esistono
soltanto
cattivi
istinti
nel
Nuovo
Testamento,
non
c'è
nemmeno
il
coraggio
per
questi
cattivi
istinti.
Tutto
in
esso
è
vigliaccheria,
un
inganno
di

stessi
e
occhi
chiusi.
Ogni
altro
libro
diviene
chiaro
dopo
aver
letto
il
Nuovo
Testamento.
Per
esempio,
immediatamente
dopo
avere
letto
Paolo,
ho
letto
con
entusiasmo
il
più
incantevole,
il
più
spavaldo
dei
canzonatori,
Petronio,
del
quale
si
possono
affermare
le
medesime
cose
che
Domenico
Boccaccio
scrisse
al
duca
di
Parma
a
proposito
di
Cesare
Borgia:
«E’
tutto
festo»,
immortalmente
sano,
immortalmente
allegro
e
ben
riuscito...
Questi
piccoli
bigotti
si
sbagliano
nella
cosa
principale.
Sferrano
attacchi,
ma
tutto
ciò
che
viene
attaccato
da
loro
diviene
per
questo
degno
di
onore.
Chiunque
venga
attaccato
da
un
«primo
cristiano»
non
ne
è
contaminato...
Al
contrario:
è
un
onore
avere
come
avversali
i
«primi
cristiani».
È
impossibile
leggere
il
Nuovo
Testamento
senza



una
preferenza
per
tutto
ciò
che
in
esso
viene
maltrattato,
per
non
parlare
della
«saggezza
di
questo
mondo»
che
un
impostore
impudente
cerca
di
oltraggiare
inutilmente...
Ma
persino
gli
scribi
e
i
farisei
traggono
vantaggio
dall'avere
nemici
di
tal
sorta:
per
essere
odiati
tanto
indecorosamente
dovevano
valere
qualcosa.
Ipocrisia:
questo
sarebbe
un
rimprovero
che
i
«primi
cristiani»
avrebbero
potuto
con
diritto
fare!
In
fondo
essi
erano
i
privilegiati:
tanto
basta!
L'odio
dei
Ciandala
non
richiede
ulteriori
motivi.
Il
«primo
cristiano»
e,
io
temo,
anche
l'«ultimo
cristiano»,
forse
vivrò
abbastanza
per
vederlo,
nei
suoi
più
bassi
istinti
è
ribelle
contro
tutto
ciò
che
è
privilegiato,
vive,
combatte
e
sempre
per
«uguali
diritti»...
A
guardare
meglio,
non
ha
scelta.
Se
si
desidera
essere,
per

stessi,
«eletti
da
Dio»,
o
«tempio
di
Dio»
o
«giudice
degli
angeli»
allora
ogni
altro
principio
di
scelta,
per
esempio
la
rettitudine,
lo
spirito,
la
virilità,
l'orgoglio,
la
bellezza
e
la
libertà
del
cuore,
diventano
semplicemente
«il
mondo»,
il
male
in
sé...
Morale:
ogni
parola
in
bocca
al
«primo
cristiano»
è
una
menzogna,
ogni
atto
che
compie
una
falsità
istintiva,
tutti
i
suoi
valori,
i
suoi
scopi
sono
dannosi,
quindi
chi
viene
odiato
da
lui,
ciò
che
viene
odiato
da
lui,
ha
valore...
Il
cristiano,
specialmente
il
sacerdote
cristiano,
è
un
criterio
di
valore.
È
necessario
che
io
dica
anche
come
nell'intero
Nuovo
Testamento
non
c'è
che
una
sola
figura
degna
di
rispetto?
Pilato,
il
governatore
romano.
Prendere
seriamente
una
disputa
tra
giudei:
è
una
cosa
di
cui
non
può
convincersi.
Un
ebreo
in
più
o
in
meno
che
importa?...
La
nobile
ironia
di
un
romano
davanti
al
quale
si
sta
facendo
uno
spudorato
abuso
della
parola
«verità»
ha
arricchito
il
Nuovo
Testamento
con
l'unica
espressione
che
abbia
valore,
espressione
che
è
la
sua
critica,
il
suo
stesso
annientamento:
«Che
cosa
è
la
verità?»...


XLVII


A
dividerci
non
è
il
fatto
che
non
ritroviamo
Dio,

nella
storia

nella
natura

al
di

di
essa,
ma
il
fatto
che
non
troviamo
«divino»
ciò
che
è
stato
venerato
come
Dio,
che
lo
reputiamo
miserabile,
assurdo,
dannoso,
che
lo
vediamo
non
soltanto
come



un
errore
ma
anche
come
un
delitto
contro
la
vita...
Neghiamo
Dio
in
quanto
Dio...
Se
ci
provassero
che
questo
Dio
dei
cristiani
esiste,
riusciremmo
ancor
meno
a
credere
in
lui.
In
una
formula:
Deus,
qualem
Paulus
creavit,
dei
negatio.
Una
religione
come
il
cristianesimo,
che
non
ha
alcun
contatto
con
la
realtà,
che
crolla
non
appena
la
realtà
anche
solo
per
un
punto
afferma
i
suoi
diritti,
deve
necessariamente
essere
un
nemico
mortale
della
«sapienza
del
mondo»,
cioè
della
scienza,
cercherà
tutti
gli
espedienti
per
avvelenare,
calunniare
e
diffamare
la
disciplina
dello
spirito,
la
limpidezza
e
la
severità
nelle
questioni
della
coscienza
spirituale,
la
nobile
freddezza
e
la
nobile
libertà
dello
spirito.
La
«fede»
come
imperativo
è
il
veto
contro
la
scienza,
in
praxi
la
menzogna
a
qualsiasi
costo...
Paolo
comprese
che
la
menzogna,
che
la
«fede»
era
necessaria;
la
Chiesa,
a
sua
volta,
in
seguito
comprese
Paolo.
Questo
Dio
che
Paolo
si
è
inventato
per
sé,
un
Dio
che
«fa
scempio
della
saggezza
del
mondo»
(in
senso
più
stretto
i
due
più
grandi
avversari
di
ogni
superstizione,
la
filologia
e
la
medicina),
è
in
realtà
soltanto
la
risoluta
decisione
di
Paolo:
chiamare
la
propria
volontà
«Dio»,
thora,
ciò
è
originariamente
ebraico.
Paolo
vuole
fare
scempio
della
«sapienza
del
mondo»:
i
suoi
nemici
sono
i
buoni
filologi
e
i
medici
della
scuola
alessandrina;
a
loro
dichiara
guerra.
In
effetti,
non
si
può
essere
filologo

medico
senza
essere
nel
medesimo
tempo
anticristiano.
Infatti
come
filologo
si
guarda
dietro
le
Sacre
Scritture,
come
medico
dietro
la
rovina
fisiologica
del
cristiano
tipico.
Il
medico
dice
«incurabile»,
il
filologo
«impostura»...


VLVIII


È
stata
davvero
capita
la
famosa
storia
che
si
trova
all'inizio
della
Bibbia?
La
storia
del
terrore
di
Dio
nei
confronti
della
scienza?...
Non
la
si
è
capita.
Quel
libro
da
sacerdoti
par
excellence
esordisce,
come
si
conviene,
con
la
grande
difficoltà
interiore
del
sacerdote:
egli
è
esposto
a
un
solo
grande
pericolo,
di
conseguenza
«Dio»
è
esposto
a
un
solo
grande
pericolo.



Il
Dio
antico,
tutto
«spirito»,
tutto
sommo
sacerdote,
tutta
perfezione,
se
ne
va
a
passeggio
nel
suo
giardino:
ma
si
annoia.
Gli
dèi
stessi
lottano
invano
contro
la
noia.
Che
fa
allora?
Inventa
l'uo-
mo,
l'uomo
è
divertente...
Ma
attenzione,
anche
l'uomo
si
annoia.
La
compassione
di
Dio
per
l'unica
pena
di
cui
tutto
il
paradiso
soffre
non
conosce
limiti:
crea
subito
degli
altri
animali.
Primo
errore
di
Dio:
l'uomo
non
trovò
divertenti
gli
animali,
dominò
su
di
essi,
non
volle
neanche
essere
un
«animale».
Allora
Dio
creò
la
donna.
E
in
effetti
la
noia
ebbe
fine,
ma
anche
qualcos'altro!
La
donna
fu
il
seconda
errore
di
Dio.
«La
donna
è
per
sua
essenza
il
serpente,
Eva»,
ogni
sacerdote
lo
sa.
«Tutto
il
male
viene
al
mondo
per
causa
sua»,
ogni
sacerdote
sa
pure
questo.
«Allora
anche
la
scienza
nasce
da
lei»...
Solo
a
causa
della
donna
l'uomo
imparò
a
gustare
il
frutto
dell'albero
della
conoscenza.
E
che
cosa
accadde?
Una
paura
terribile
assalì
l'antico
Dio.
L'uomo
stesso
era
divenuto
il
suo
errore
più
grande:
Dio
si
era
creato
un
rivale,
in
quanto
la
scienza
rende
simili
a
Dio:
per
i
sacerdoti
e
per
gli
dèi
è
finita
se
l'uomo
diventa
scientifico!
Morale:
la
scienza
è
il
proibito
in
sé,
essa
è
tutto
ciò
che
è
proibito.
La
scienza
è
il
primo
peccato,
il
germe
di
tutti
i
peccati,
il
peccato
originale.
La
morale
non
è
altro
che
questo.
«Tu
non
devi
conoscere»:
il
resto
segue
da
questo.
Il
terrore
di
Dio
non
gli
impedisce
di
essere
scaltro.
Come
difendersi
dalla
scienza?
Per
molto
tempo
fu
questo
il
suo
problema
principale.
Risposta:
l'uomo
esca
dal
paradiso.
La
felicità
e
l'ozio
suscitano
pensieri
e
tutti
i
pensieri
sono
cattivi...
L'uomo
non
deve
pensare.
E
il
«sacerdote
in
sé»
inventa
la
fatica,
la
morte,
il
pericolo
mortale
della
gravidanza,
ogni
sorta
di
miseria,
la
vecchiaia,
i
tormenti
e
soprattutto
la
malattia:
null'altro
che
strumenti
di
lotta
contro
la
scienza!
Il
bisogno
non
permette
all'uomo
di
pensare...
Eppure...
Che
spavento!
L'edificio
della
conoscenza
si
innalza
maestoso,
oscurando
il
cielo
come
una
tempesta,
ponendo
gli
dèi
al
crepuscolo:
che
fare?
Il
Dio
antico
inventa
la
guerra,
divide
i
popoli,
fa
che
gli
uomini
si
distruggano
a
vicenda
(i
sacerdoti
hanno
sempre
avuto
bisogno
della
guerra...).
La
guerra
è
tra
le
altre
cose
grande
perturbatore
della
scienza!
Incredibile!
La
conoscenza,
l'emancipazione
dal
sacerdote,
cresce
a
dispetto
delle
guerre.
Così
il
Dio
antico
giunge
a
una
decisione
estrema:
«L'uomo
è
divenuto
scientifico,
non
resta
altro
da
fare,
bisogna
annegarlo!»...



XLIX


Sono
stato
capito?
L'esordio
della
Bibbia
racchiude
l'intera
psi-
cologia
del
sacerdote.
Il
sacerdote
conosce
un
solo
grande
peri-
colo:
la
scienza.
Il
sano
concetto
di
causa
ed
effetto.
Ma
la
scienza
per
lo
più
non
fiorisce
che
in
condizioni
favorevoli;
bisogna
avere
tempo
e
spirito
d'avanzo
per
«conoscere»...
«Di
conseguenza
si
deve
rendere
infelice
l'uomo»
questa
è
stata
in
ogni
epoca
la
logica
del
sacerdote.
Si
indovina
già
che
cosa
è
entrato
nel
mondo,
in
conformità
a
questa
logica:
il
«peccato»...
Il
concetto
di
peccato
e
di
castigo,
l'intero
«ordine
morale
del
mondo»
vennero
inventati
contro
la
scienza,
in
opposizione
all'emancipazione
dell'uomo
dal
sacerdote...
L'uomo
non
deve
guardare
fuori
di
sé,
ma
dentro
di
sé;
non
deve
osservare
dentro
le
cose
con
intuito
e
circospezione,
come
chi
apprende,
non
deve,
in
generale,
guardare
affatto:
egli
deve
soffrire...
E
deve
soffrire
in
modo
da
aver
bisogno
del
sacerdote
in
ogni
momento.
Basta
con
i
medici!
Ci
vuole
un
Salvatore.
Il
concetto
di
colpa
e
castigo,
inclusa
la
dottrina
della
«grazia»,
della
«redenzione»
e
del
«perdono»:
menzogne
dalla
prima
all'ultima
e
senza
alcuna
realtà
psicologica,
sono
state
inventate
per
distruggere
il
senso
di
causalità
dell'uomo:
sono
l'at-
tentato
contro
il
concetto
di
causa
ed
effetto!
E
non
un
attentato
perpetrato
con
il
pugno,
con
il
coltello,
con
odio
o
amore
sinceri!
Ma
un
attentato
determinato
dagli
istinti
più
vili,
più
cattivi
e
infimi!
Un
attentato
da
sacerdote!
Un
attentato
da
parassita!
II
vampirismo
di
pallide
sanguisughe
sotterranee!...
Quando
le
conseguenze
naturali
di
un'azione
non
sono
più
«naturali»,
ma
vengono
credute
l'effetto
dei
fantasmi
concettuali
della
superstizione,
di
«Dio»,
dello
«spirito»,
dell'«anima»,
e
risultano
conseguenze
puramente
«morali»,
in
quanto
ricompense,
castighi,
segni,
punizioni,
allora
viene
distrutta
la
condizione
primaria
della
conoscenza,
allora
è
stato
commesso
il
più
grande
delitto
contro
l'umanità.
Il
peccato,
lo
ripeto,
la
forma
par
excellence
di
autolesionismo
dell'uomo,
fu
inventato
per
rendere
impossibile
la
scienza,
la
cultura
e
ogni
forma
di
elevazione
e
nobiltà
dell'uomo;
il
sacerdote
domina
grazie
all'invenzione
del
peccato.



L


Non
posso
esimermi
in
questa
sede
da
una
psicologia
della
«fede»,
dei
«credenti»,
a
vantaggio,
com'è
giusto,
proprio
dei
cre-
denti.
Se
ancora
oggi
non
mancano
coloro
che
ignorano
fino
a
che
punto
sia
indecente
essere
«credenti»,
ovvero
essere
emblema
della
décadence,
di
una
volontà
di
vivere
spezzata,
ebbene,
giungeranno
a
saperlo
domani.
La
mia
voce
arriva
pure
a
coloro
che
sono
duri
d'orecchi.
Sembra,
se
non
ho
capito
male,
che
tra
i
cristiani
vi
sia
una
specie
di
criterio
di
verità
chiamato
«prova
di
forza».
«La
fede
rende
beati:
quindi
è
vera».
Ora
si
potrebbe
immediatamente
obiettare
che
la
beatitudine
futura
non
è
provata,
ma
soltanto
promessa:
la
beatitudine
è
legata
alla
condizione
di
«fede»,
si
deve
essere
beati
perché
si
crede...
Ma
che
si
verifichi
effettivamente
ciò
che
il
sacerdote
promette
al
credente
riguardo
a
un
«aldilà»
inaccessibile
a
qualsiasi
controllo,
come
si
potrebbe
provare
tutto
questo?
La
pretesa
«prova
di
forza»
è
quindi
in
fondo
soltanto
un'ulteriore
credenza
che
l'effetto
promesso
dalla
fede
non
potrà
venir
meno.
In
una
formula:
«Credo
che
la
fede
renda
beati,
dunque
è
vera».
Ma
con
ciò
siamo
già
alla
fine.
Questo
«dunque»
sarebbe
l’absurdum
stesso,
assunto
a
criterio
di
verità.
Ammettiamo
tuttavia,
con
un
po'
di
indulgenza,
che
la
beatitudine
futura
sia
provata
grazie
alla
fede
(non
solo
desiderata,
non
solo
promessa
dalla
bocca,
comunque
sospetta,
del
sacerdote).
La
beatitudine
-o,
per
usare
un'espressione
più
tecnica,
il
piacere
-
potrebbe
mai
costituire
una
prova
di
verità?
Lo
sarebbe
così
poco
che
si
ha
quasi
la
prova
opposta
e
in
ogni
caso
il
massimo
sospetto
nei
confronti
della
«verità»,
quando
le
sensazioni
di
piacere
hanno
voce
in
capitolo
riguardo
alla
domanda:
«Che
cosa
è
la
verità?».
La
prova
del
«piacere»
è
una
prova
di
piacere:
nulla
di
più.
Quando
mai
sulla
Terra
è
stato
stabilito
che
i
giudizi
veri
procurino
maggior
diletto
di
quelli
falsi
e
che,
secondo
un'armonia
prestabilita,
arrechino
necessariamente
sensazioni
piacevoli?
L'esperienza
di
tutti
gli
spiriti
rigorosi
e
profondi
insegna
il
contrario.
La
verità
ha
dovuto
essere
conquistata
passo
dopo
passo:
le
è
stata
sacrificata
quasi
ogni
cosa
cara
al
nostro
cuore,
da
cui
dipendono
il
nostro
amore
e
la
fiducia
nella
vita.
Per
essa
è
d'uopo
la
grandezza
d'animo:
servire
la
verità
è
il
più
duro
dei
servigi.
Giacché
cosa
significa
essere
onesti
nelle
cose
dello
spirito?
Che
si
è
severi
con
il
proprio
cuore,
che
si
disprezzano
i
«bei
sentimenti»,
che
ogni

e



ogni
no
divengono
una
questione
di
coscienza!
La
fede
rende
beati,
di
conseguenza
mente...


LI


Che
in
qualche
caso
la
fede
renda
beati,
che
la
beatitudine
non
basti
a
fare
di
un'idea
fissa
un'idea
vera,
che
la
fede
non
smuova
le
montagne,
ma
certo
le
ponga
dove
non
sono:
una
rapida
visita
a
un
manicomio
sarebbe
abbastanza
chiarificatrice
al
riguardo.
Tuttavia
non
per
un
sacerdote:
poiché
costui
nega
per
istinto
che
la
malattia
sia
malattia
e
che
il
manicomio
sia
manicomio.
Il
cri-
stianesimo
ha
bisogno
della
malattia
almeno
quanto
l'ellenismo
ha
bisogno
di
un
eccesso
di
salute.
Rendere
malati
è
il
vero
fine
recondito
di
tutto
il
sistema
della
procedura
salvifica
della
Chiesa.
E
la
Chiesa
stessa
non
è
il
manicomio
cattolico
come
ideale
supremo?
Insomma,
la
Terra
come
manicomio?
L'uomo
religioso
così
come
lo
desidera
la
Chiesa
è
un
tipico
décadent:
l'epoca
in
cui
una
crisi
religiosa
si
impossessa
di
un
popolo
è
caratterizzata
sempre
da
un'epidemia
di
malattie
nervose;
il
«mondo
interiore»
di
un
uomo
religioso
è
talmente
simile
al
«mondo
interiore»
del
sovreccitato
e
dell'esaurito
da
essere
scambiato
per
esso;
gli
stati
«più
elevati»
che
il
cristianesimo
ha
posto
al
di
sopra
del
genere
umano
come
i
valori
di
tutti
i
valori
sono
forme
di
epilessia:
la
Chiesa
ha
canonizzato
solo
folli
o
grandi
impostori
in
maiorem
dei
honorem...
Una
volta
mi
sono
permesso
di
descrivere
l'intero
training
cristiano
della
penitenza
e
della
redenzione
(che
oggi
si
studia
meglio
in
Inghilterra)
come
una
folie
circulaire
prodotta
metodicamente,
come
è
naturale,
su
un
terreno
già
predisposto,
cioè
profondamente
malaticcio.
Nessuno
è
libero
di
divenire
cristiano:
nessuno
è
«convertito»
al
cristianesimo,
bisogna
essere
sufficientemente
malati
per
esso...
Noi
altri,
che
abbiamo
il
coraggio
della
salute
e
anche
del
disprezzo,
abbiamo
il
diritto,
noi,
quanto
possiamo,
di
disprezzare
una
religione
che
insegna
a
equivocare
sulla
corporeità;
che
non
vuole
liberarsi
della
superstizione
dell'anima;
che
si
fa
un
«merito»
della
scarsa
alimentazione;
che
combatte
il
benessere
come
una
sorta
di
nemico,
di
diavolo,
di



tentazione;
che
si
è
convinta
a
credere
che
un'«anima
perfetta»
possa
aggirarsi
in
un
corpo
di
cadavere
e
che
ha
dovuto
creare
per

una
nuova
concezione
della
«perfezione»,
un
essere
pallido,
malato,
un
fanatico
fino
all'idiozia:
la
cosiddetta
«santità»,
santità
che
di
per

stessa
non
è
altro
che
la
serie
di
sintomi
di
un
corpo
consunto,
snervato
e
irreparabilmente
corrotto!...
Come
movimento
europeo,
il
movimento
cristiano
è
stato
fin
dagli
albori
un
movimento
collettivo
di
reietti
ed
elementi
di
scarto
di
ogni
sorta
(questi
volevano
il
potere
con
il
cristianesimo).
Non
è
l'espressione
del
declino
di
una
razza,
ma
piuttosto
l'aggregazione
delle
forme
della
décadence,
che
vengono
da
ogni
dove,
che
si
ammassano
e
si
cercano
reciprocamente.
Non
è,
come
si
crede,
la
corruzione
della
stessa
antichità,
dell'antichità
nobile,
che
rese
possibile
il
cristianesimo:
l'erudita
idiozia
che
ancora
oggi
sostiene
un
simile
fatto
non
potrà
mai,essere
combattuta
con
sufficiente
violenza.
Nell'epoca
in
cui
le
classi
dei
dandola
di
tutto
l’imperium,
pervertite
e
corrotte,
diventarono
cristiane,
il
tipo
opposto,
l'aristocrazia,
esisteva
proprio
nella
sua
forma
più
bella
e
più
matura.
La
maggioranza
diventò
padrona;
il
democratismo
degli
istinti
cristiani
ebbe
il
sopravvento...
Il
cristianesimo
non
era
«nazionale»,
non
era
condizionato
a
una
razza,
si
rivolgeva
a
tutti
i
tipi
di
diseredati
della
vita
e
aveva
i
suoi
alleati
ovunque.
Il
cristianesimo
si
fonda
sul
rancune
dei
malati,
ha
l'istinto
diretto
contro
i
sani,
contro
la
salute.
Ogni
cosa
che
è
ben
fatta,
fiera,
esuberante,
in
special
modo
la
bellezza,
infastidisce
le
sue
orecchie
e
i
suoi
occhi.
Ricordo
ancora
una
volta
le
inestimabili
parole
di
Paolo:
«Dio
ha
scelto
ciò
che
al
mondo
è
debole,
ciò
che
è
stolto,
ciò
che
è
vile
e
spregevole»:
ecco
qual
era
la
formula,
in
hoc
signo
vinse
la
décadence.
Dio
in
crocei
Non
è
chiaro
quale
spaventoso
significato
si
cela
dietro
a
questo
simbolo?
Tutto
ciò
che
soffre,
tutto
ciò
che
è
sospeso
sulla
croce
è
divino...
Noi
tutti
siamo
sospesi
sulla
croce,
quindi
siamo
divini...
Solo
noi
siamo
divini...
Il
cristianesimo
fu
una
vittoria
e
per
causa
sua
perì
una
disposizione
spirituale
più
nobile:
finora
il
cristianesimo
è
stato
la
più
grande
sciagura
dell'umanità.



LII


II
cristianesimo
contrasta
anche
ogni
ben
riuscita
costituzione
intellettuale,
può
impiegare
solo
la
ragione
malata
come
ragione
cristiana,
assume
le
parti
di
tutto
ciò
che
è
idiota,
lancia
una
male-
dizione
contro
lo
«spirito»,
contro
la
superbia
dello
spirito
sano.
Poiché
la
malattia
fa
parte
dell'essenza
del
cristianesimo,
è
anche
necessario
che
la
condizione
cristiana,
la
«fede»,
sia
una
forma
morbosa;
è
necessario
che
ogni
via
diretta,
onesta
e
scientifica,
che
porta
alla
conoscenza,
sia
ripudiata
dalla
Chiesa
in
quanto
rap-
presenta
un
percorso
proibito.
Persino
dubitare
è
peccato...
L'assoluta
mancanza
di
limpidezza
psicologica
nel
sacerdote,
che
emerge
nel
suo
sguardo,
è
una
conseguenza
della
décadence;
si
osservi
nelle
donne
isteriche
e
nei
fanciulli
rachitici
come
l'istintiva
falsità,
il
mentire
per
il
gusto
di
mentire,
l'incapacità
a
guardare
diritto
e
ad
agire
rettamente
siano
regolarmente
espressioni
di
décadence.
La
«fede»
è
volere
ignorare
ciò
che
è
verità.
Il
pietista,
il
sacerdote
di
ambo
i
sessi,
è
falso
perché
è
malato:
il
suo
istinto
esige
che
la
verità
non
affermi
i
suoi
diritti
in
alcun
luogo.
«Ciò
che
rende
malati
è
buono;
ciò
che
deriva
dalla
pienezza,
dalla
sovrabbondanza,
dalla
potenza
è
cattivo»:
ecco
ciò
che
pensa
il
credente.
L'obbligo
alla
menzogna,
in
questo
riconosco
ogni
teologo
predestinato.
Un'altra
caratteristica
dei
teologi
è
la
loro
incapacità
filologica.
La
filologia
in
questa
sede
deve
essere
intesa
in
senso
assai
ampio,
come
arte
del
leggere
bene,
del
sapere
legge
re
i
fatti
senza
falsificarli
con
interpretazioni,
senza
perdere
la
prudenza,
la
pazienza
o
la
sottigliezza
per
il
desiderio
di
comprendere.
Filologia
come
ephexis
nell'interpretazione:
si
tratti
di
un
libro,
di
notizie
di
periodici,
di
destini
e
di
tempo;
per
non
parlare
della
«salvezza
dell'anima»...
Il
modo
in
cui
un
teologo,
non
importa
se
a
Berlino
o
a
Roma,
interpreta
una
«parola
delle
Scritture»,
o
un
qualsiasi
evento,
per
esempio
la
vittoria
dell'esercito
della
propria
nazione,
alla
luce
sublime
dei
salmi
di
Davide,
è
sempre
così
temerario
da
far
spazientire
i
filologi.
E
cosa
devono
fare
questi
quando
i
pietisti
e
altre
vacche
di
Svevia
attraverso
il
«dito
di
Dio»
rimettono
in
sesto
la
loro
misera
esistenza,
quotidiana
e
fumosa,
facendone
un
miracolo
di
«grazia»,
di
«provvidenza»
e
di
«sante
esperienze»?
Eppure
il
minimo
dispendio
di
ingegno,
per
non
dire
di
decenza,
dovrebbe
persuadere
questi
interpreti
dell'assoluto
infantilismo
e
dell'indegnità
di
un
tale
abuso
di
capacità
divina.
Anche
solo
una



piccolissima
dose
di
devozione
in
noi
dovrebbe
essere
abolita,
se
esistesse
un
Dio
talmente
assurdo
da
curare
al
momento
opportuno
un
raffreddore
o
da
farci
entrare
in
carrozza
proprio
quando
sta
per
incominciare
un
acquazzone.
Questo
Dio
visto
come
domestico,
postino,
venditore
di
almanacchi,
in
sostanza
una
parola
sola
per
esprimere
la
forma
più
stupida
tra
tutte
le
circostanze
casuali...
La
«divina
provvidenza»,
alla
quale
ancora
oggi
crede
quasi
una
persona
su
tre
della
«Germania
colta»,
costituirebbe
un'obiezione
tale
contro
Dio,
che
non
se
ne
potrebbe
immaginare
un'altra
più
forte;
e
in
ogni
caso
è
un'obiezione
contro
i
tedeschi!...


LIII


È
così
poco
vero
che
un
martire
stia
a
dimostrare
la
verità
di
una
cosa,
che
vorrei
affermare
che
un
martire
non
ha
mai
avuto
niente
a
che
fare
con
la
verità.
Nel
tono
con
cui
un
martire
proclama
la
propria
convinzione
di
verità
in
faccia
al
mondo
è
espresso
un
livello
talmente
basso
di
onestà
intellettuale,
una
tale
ottusità
riguardo
alla
questione
della
«verità»
che
non
è
mai
necessario
confutare
un
martire.
La
verità
non
è
qualcosa
che
alcuni
possie-
dono
e
altri
no:
solo
i
contadini
o
gli
apostoli
dei
contadini
della
specie
di
Lutero
possono
pensare
alla
verità
in
questi
termini.
Si
può
star
certi
che,
secondo
il
grado
di
coscienziosità
nelle
que-
stioni
dello
spirito,
la
modestia,
la
moderazione
su
questo
punto,
cresceranno
sempre.
Sapere
cinque
cose
e
rifiutare
con
mano
leg-
gera
di
sapere
le
altre...
La
«verità»,
come
la
intende
ogni
profeta,
ogni
settario,
ogni
libero
pensatore,
ogni
socialista,
ogni
uomo
di
Chiesa,
è
una
prova
assoluta
che
non
s'è
ancora
dato
inizio
a
quella
disciplina
dello
spirito
e
a
quel
superamento
di

indi-
spensabili
a
trovare
una
qualsiasi
verità,
sia
pure
la
più
piccola.
La
morte
dei
martiri,
detto
tra
parentesi,
è
stata
una
grande
sciagura
nel
corso
della
storia:
ha
sedotto...
La
conclusione
di
tutti
gli
idioti,
donne
e
nazioni
incluse,
che
una
causa
per
la
quale
qualcuno
è
disposto
a
morire
(ovvero
che,
come
il
cristianesimo
primitivo,
genera
addirittura
un'epidemia
di
desiderio
di
morte)
abbia
un



qualche
valore,
è
divenuta
un
indicibile
ostacolo
per
la
ricerca,
per
lo
spirito
di
ricerca
e
di
prudenza.
I
martiri
hanno
nuociuto
alla
verità...
E
ancora
oggi
basta
una
crudeltà
della
persecuzione
per
dare
una
reputazione
onorevole
a
un
settarismo
in

ancora
insignificante.
Come?
Il
valore
di
una
causa
aumenta
se
qualcuno
rinuncia
alla
propria
vita
per
essa?
Un
errore
che
è
diventato
rispettabile
è
un
errore
dotato
di
un
ulteriore
fascino
seduttivo.
Signori
teologi,
credete
che
vi
concederemmo
l'occasione
di
fare
i
martiri
per
le
vostre
menzogne?
Si
confuta
una
cosa
mettendola
rispettosamente
da
parte:
proprio
in
questo
modo
si
confutano
anche
i
teologi...
Fu
proprio
questa
la
stupidità
di
tutti
i
persecutori
della
storia
del
mondo:
concedere
alla
causa
avversa
le
apparenze
dell'onorabilità,
donarle
il
fascino
del
martirio....
Ancora
oggi
la
donna
si
inginocchia
davanti
a
un
errore
perché
le
è
stato
detto
che
qualcuno
morì
sulla
croce
per
esso.
E
dunque
la
croce
un
argomento?
Ma
riguardo
a
tutte
queste
cose
un
solo
uomo
ha
pronunziato
la
parola
di
cui
si
sarebbe
avuto
bisogno
da
millenni:
Zarathustra.


Scrissero
lettere
di
sangue
sul
sentiero
che
percorsero,
e
la
loro
stoltezza
insegnava
che
la
verità
si
attesta
col
sangue.
Ma
il
sangue
è
il
peggiore
testimone
della
verità;
il
sangue
avvelena
la
dottrina
più
pura
e
la
trasforma
in
illusione
e
odio
dei
cuori.
E
anche
se
qualcuno
si
getta
nel
fuoco
per
la
sua
dottrina,
che
dimostra
ciò?
In
verità
è
più
significativo
se
la
dottrina
di
qualcuno
emerge
dal
suo
stesso
rogo!


LIV


Non
lasciamoci
ingannare:
i
grandi
spiriti
sono
scettici.
Zarathustra
è
uno
scettico.
La
forza,
la
libertà,
dovute
al
vigore
e
a
un
eccesso
di
forza
dello
spirito,
si
dimostrano
con
scetticismo.
Gli
uomini
di
convinzione
non
arrivano
affatto
a
considerare
il
principio
di
valore
e
di
disvalore.
Le
convinzioni
sono
prigioni.
Costoro
non
vedono
sufficientemente
lontano,
non
guardano
sotto
di
sé:
invece,
perché
si
possa
parlare
di
valore
e
di
disvalore,
bisogna
vedere
cinquecento
convinzioni
sotto
di
sé,
dietro
di
sé...



Uno
spirito
che
vuole
fare
grandi
cose,
che
vuole
anche
i
mezzi
per
realizzarle,
è
necessariamente
uno
scettico.
La
libertà
da
ogni
sorta
di
convinzioni
è
parte
integrante
della
forza,
come
il
saper
guardare
liberamente...
La
grande
passione
dello
scettico,
fonda-
mento
e
potenza
del
proprio
essere,
ancora
più
illuminata,
più
dispotica
di
quanto
sia
egli
stesso,
prende
al
proprio
servizio
tutto
il
suo
intelletto;
lo
rende
intrepido;
gli

persino
il
coraggio
di
usare
mezzi
empi
e,
all'occorrenza,
gli
concede
delle
convinzioni.
La
convinzione
come
mezzo:
si
può
raggiungere
molto
soltanto
per
mezzo
di
una
convinzione.
La
grande
passione
necessita
e
si
serve
delle
convinzioni,
ma
non
si
sottomette
a
esse,
si
riconosce
sovrana.
Viceversa,
il
bisogno
di
fede,
di
qualcosa
non
condizio-
natoda
un
sìo
da
unno,
il
carlylismo,
se
mi
è
concesso
usare
l'espressione,
è
un'esigenza
della
debolezza.
L'uomo
di
fede,
qualsivoglia
tipo
di
«credente»
è
necessariamente
una
persona
dipendente,
uno
che
non
si
considera
un
fine,
che
non
può
determinare
alcun
fine
da
sé.
il
«credente»
non
appartiene
a
se
stesso,
può
solo
costituire
un
mezzo,
deve
essere
usato,
necessita
di
qualcuno
che
si
serva
di
lui.
Il
suo
istinto
conferisce
il
massimo
onore
a
una
morale
di
autorinuncia:
tutto
lo
persuade
in
questo
senso,
la
sua
intelligenza,
la
sua
esperienza,
la
sua
vanità.
Qualsiasi
forma
di
fede
è
per
se
stessa
espressione
di
autorinuncia,
di
autoalienazione...
Se
si
considera
quale
bisogno
abbia
la
maggior
parte
della
gente
di
una
regola
che
la
vincoli
e
la
costringa
dall'esterno,
e
come
la
coercizione
o,
nel
significato
più
alto,
la
schiavitù,
sia
la
sola
ed
estrema
condizione
in
cui
le
persone
dalla
volontà
debole,
specialmente
le
donne,
possano
prosperare,
allora
si
comprenderà
anche
la
convinzione,
la
«fede».
L'uomo
di
convinzione
ha
in
essa
la
sua
spina
dorsale.
Non
vedere
certe
cose,
non
essere
indipendente
in
alcun
punto,
essere
sempre
parziale,
avere
in
tutti
i
valori
un'ottica
severa
e
necessaria:
tutto
questo
spiega
perché
esista,
in
genere,
una
tale
specie
di
uomini.
Ma
questo
fa

che
sia
il
contrario,
l'antagonista
di
ciò
che
è
veritiero,
della
verità...
Il
credente
non
è
libero
di
possedere
una
coscienza
per
la
questione
del
«vero»
e
del
«falso»:
essere
onesti
su
questo
punto
significherebbe
il
suo
crollo
immediato.
La
limpidezza
patologica
della
sua
prospettiva
rende
l'uomo
convinto
un
fanatico:
Savonarola,
Lutero,
Rousseau,
Robespierre,
Saint-Simon,
il
tipo
opposto
agli
spiriti
forti
ed
emancipati.
Ma
le
grandi
attitudini
di
questi
spiriti
malati,
di
questi
epilettici
concettuali,
impressionano
le
grandi
masse:
i
fanatici



sono
pittoreschi
e
l'umanità
preferisce
vedere
atteggiamenti
che
ascoltare
ragioni...


LV


Un
passo
ulteriore
nella
psicologia
della
convinzione,
della
«fede».
Molto
tempo
fa
sottolineai
che
le
convinzioni
sono
per
la
verità
nemiche
più
pericolose
di
quanto
lo
siano
le
bugie
(Umano,
troppo
umano,
I,
af.
483).
Questa
volta
vorrei
porre
la
domanda
decisiva:
esiste,
in
generale
un'opposizione
tra
la
menzogna
e
la
convinzio-
ne?
Il
mondo
intero
ritiene
che
vi
sia,
ma
che
cosa
non
crede
il
mondo
intero?
Ogni
convinzione
ha
la
sua
storia,
le
sue
forme
ori-
ginarie,
i
suoi
tentativi,
i
suoi
errori:
diviene
convinzione
dopo
che
non
è
stata
tale
per
lungo
tempo
e
dopo
che
per
un
periodo
ancora
più
lungo
è
stata
tale
a
stento.
Come?
La
menzogna
non
potrebbe
trovarsi
sotto
tale
forma
embrionale
di
convinzione?
Talvolta
è
necessario
solo
un
cambiamento
di
persone:
pet
il
figlio
diventa
convinzione
ciò
che
per
il
padre
era
ancora
menzogna.
Io
definisco
menzogna
il
non
voler
vedere
certe
cose
che
si
vedono,
il
non
voler
vedere
qualcosa
così
come
si
vede:
se
la
menzogna
abbia
luogo
davanti
a
dei
testimoni
o
meno
è
del
tutto
irrilevante.
La
forma
più
comune
di
menzogna
è
quella
che
si
fa
a

stessi:
mentire
agli
altri
è
relativamente
eccezionale.
Ora
questo
non
voler
vedere
ciò
che
si
vede,
questo
non
voler
vedere
qualcosa
così
come
si
vede,
costituisce
la
condizione
primaria
di
tutti
coloro
che
appartengono
in
qualche
modo
a
questo
o
quel
partito:
l'uomo
di
partito
è
necessariamente
un
bugiardo.
La
storiografia
tedesca,
per
esempio,
è
convinta
che
Roma
incarnasse
il
dispotismo
e
che
i
tedeschi
abbiano
portato
lo
spirito
di
libertà
nel
mondo:
che
differenza
c'è
tra
questa
convinzione
e
una
menzogna?
Ci
si
può
ancora
stupire
del
fatto
che,
se
tutti
i
partiti,
inclusi
gli
storici
tede-
schi,
per
istinto
hanno
in
bocca
le
grandi
parole
della
morale,
que-
sta
continui
a
essere
la
morale,
quasi
solamente
perché
qualsiasi
tipo
di
uomo
di
partito
necessita
di
essa
in
ogni
momento?
«Questa
è
la
nostra
convinzione:
lo
riconosciamo
dinanzi
a
tutto
il
mondo;
per
essa
viviamo
o
moriamo.
Rispettiamo
tutti
coloro
che



hanno
delle
convinzioni!»
Ho
udito
discorsi
simili
uscire
persino
dalle
labbra
di
antisemiti.
Al
contrario,
signori,
un
antisemita
non
diventa
certo
più
rispettabile
mentendo
per
principio...
I
sacerdoti,
che
in
questioni
simili
sono
più
astuti
e
comprendono
assai
bene
l'obiezione
che
si
potrebbe
sollevare
riguardo
al
concetto
di
convinzione,
ossia
alla
falsità
per
principio,
perché
asservita
a
uno
scopo,
hanno
ereditato
dagli
ebrei
la
prudenza
di
introdurre
a
questo
punto
il
concetto
di
«Dio»,
di
«volontà
divina»,
di
«rivelazione
di
Dio».
Anche
Kant,
col
suo
imperativo
categorico,
si
trovò
sulla
stessa
strada:
allora
la
sua
ragione
divenne
pratica.
Vi
sono
questioni
in
cui
non
spetta
all'uomo
decidere
del
vero
e
del
falso:
tutte
le
questioni
supreme,
tutti
i
sommi
problemi
di
valore
sono
al
di

della
ragione
umana...
Comprendere
i
limiti
della
ragione:
soltanto
questa
è
autentica
filosofia...
A
che
scopo
Dio
diede
all'uomo
la
rivelazione?
Dio
avrebbe
fatto
qualcosa
di
superfluo?
L'uomo
non
è
in
grado
di
sapere
da

cosa
è
buono
o
cattivo
e
per
questo
Dio
gli
insegnò
la
sua
volontà...
Morale:
il
sacerdote
non
mente.
La
questione
del
«vero»
o
del
«falso»
non
si
pone
nei
termini
in
cui
ne
parlano
i
sacerdoti;
non
permette
affatto
di
mentire.
Giacché,
per
mentire,
bisognerebbe
poter
stabilire
che
cosa
in
questo
caso
sia
vero.
Ma
questo
è
proprio
ciò
che
l'uomo
non
può
fare:
il
sacerdote
è
così
il
solo
portavoce
di
Dio.
Un
simile
sillogismo
da
sacerdote
non
è
affatto
soltanto
ebraico
e
cristiano;
il
diritto
alla
menzogna
e
l'astuzia
di
una
«rivelazione»
appartiene
al
tipo
del
sacerdote,
ai
sacerdoti
della
décadence
quanto
a
quelli
del
paganesimo
(pagani
sono
tutti
quelli
che
dicono

alla
vita,
per
i
quali
«Dio»
è
la
parola
del
grande

a
tutte
le
cose).
La
«legge»,
la
«volontà
di
Dio»,
il
«libro
sacro»,
1'«ispirazione»:
tutte
parole
che
definiscono
soltanto
le
condizioni
sotto
le
quali
il
sacerdote
giunge
al
potere
e
attraverso
le
quali
lo
mantiene;
tali
concetti
si
trovano
alla
base
di
tutte
le
organizzazioni
sacerdotali,
di
tutte
le
forme
di
potere
sacerdotale
o
filosofico-sacerdotale.
La
«sacra
menzogna»,
comune
a
Confucio,
al
codice
di
Manu,
a
Maometto,
alla
Chiesa
cristiana,
non
è
assente
in
Platone.
«La
verità
esiste»:
ciò
significa,
ovunque
lo
si
affermi,
che
il
sacerdote
mente...



LVI


In
conclusione,
il
punto
è
a
quale
scopo
si
dice
una
bugia.
La
mia
obiezione
contro
i
mezzi
del
cristianesimo
è
che
manca
di
fini
«santi».
In
esso
esistono
solo
fini
malvagi:
avvelenamento,
calunnia
e
negazione
della
vita,
disprezzo
per
il
corpo,
denigra-
zione
e
autoprofanazione
dell'uomo
per
mezzo
del
concetto
di
peccato,
ne
consegue
che
anche
i
suoi
fini
sono
malvagi.
È
con
sen-
timento
opposto
che
leggo
il
codice
di
Manu,
un'opera
incomparabilmente
spirituale
e
superiore,
al
punto
che
il
solo
nominarla
assieme
alla
Bibbia
sarebbe
un
peccato
contro
lo
spirito.
S'indovina
subito
che
ha
una
vera
filosofia
dietro
di
sé,
in
sé,
non
soltanto
un
ebraismo
maleodorante
intriso
di
rabbinismo
e
superstizione.
Offre
qualcosa
persino
agli
psicologi
più
esigenti.
Senza
dimenticare
la
cosa
principale,
ciò
che
lo
distingue
da
ogni
Bibbia:
è
lo
strumento
tramite
il
quale
le
classi
nobili,
i
filosofi
e
i
guerrieri,
mantengono
il
controllo
sulla
moltitudine;
valori
nobili
ovunque,
un
senso
di
perfezione,
un'affermazione
della
vita,
un
piacere
trionfante
di

e
della
vita;
il
sole
risplende
su
tutto
il
libro.
Tutti
i
temi
sui
quali
il
cristianesimo
riversa
la
sua
inesauribile
volgarità,
per
esempio
la
procreazione,
la
donna,
il
matrimonio,
in
esso
vengono
trattati
con
serietà,
rispetto,
amore
e
fiducia.
Come
si
può
porre
in
mano
a
fanciulli
e
a
donne
un
libro
che
contiene
queste
spregevoli
affermazioni:
«Per
evitare
la
fornicazione
che
ogni
uomo
abbia
la
propria
moglie,
e
che
ogni
donna
abbia
il
proprio
marito...
Poiché
è
meglio
sposarsi
che
provare
libidine»?
Ed
è
lecito
essere
cristiani
finché
la
nascita
dell'uomo
viene
cristianizzata,
ovvero
macchiata,
con
il
concetto
della
immaculata
conceptio?...
Non
conosco
alcun
libro
nel
quale
si
dicono
alle
donne
tante
cose
tenere
e
buone
come
nel
codice
di
Manu;
questi
vecchi
e
santi
dalla
barba
grigia
possiedono
un
modo
di
essere
gentili
nei
confronti
delle
donne
che
forse
è
insuperato.
«La
bocca
di
una
donna

scritto
in
esso,
-il
seno
di
una
fanciulla,
la
preghiera
di
un
bambino,
il
fumo
del
sacrificio
sono
sempre
puri».
In
un
altro
passo:
«Non
v'è
alcunché
di
più
puro
della
luce
del
sole,
dell'ombra
di
una
giovenca,
dell'aria,
dell'acqua,
del
fuoco
e
del
respiro
di
una
fanciulla».
Un
ultimo
passo,
forse
pure
una
santa
menzogna:
«Tutti
gli
orifizi
del
corpo
al
di
sopra
dell'ombelico
sono
puri,
tutti
quelli
al
di
sotto
impuri.
Solo
nella
fanciulla
tutto
il
corpo
è
puro».



LVII


Si
coglie
in
flagrante
l'empietà
dei
mezzi
cristiani,
se
si
paragonano
i
fini
cristiani
con
quelli
del
codice
di
Manu,
se
si
illumina
con
luce
viva
questo
grandissimo
contrasto
di
fini.
Il
critico
del
cri-
stianesimo
non
può
esimersi
dal
compito
di
rendere
disprezzabile
il
cristianesimo.
Un
codice
come
quello
di
Manu
nasce
come
tutti
i
buoni
codici:
riassume
l'esperienza,
la
prudenza
e
la
morale
spe-
rimentale
di
lunghi
secoli,
conclude,
non
crea
nulla
di
più.
Il
pre-
supposto
per
una
codificazione
di
questo
genere
è
la
convinzione
che
i
mezzi
per
dare
autorità
a
una
verità
acquisita
lentamente
e
a
caro
prezzo
siano
fondamentalmente
diversi
da
quelli
con
cui
la
si
dimostra.
Un
codice
non
racconta
mai
l'utilità,
le
ragioni,
la
casistica
nella
preistoria
di
una
legge:
giacché
così
facendo
perderebbe
il
tono
imperativo,
il
«tu
devi»,
la
condizione
per
essere
ascoltato.
Il
problema
sta
proprio
in
questo.
A
un
certo
punto
dell'evoluzione
di
un
popolo,
la
sua
classe
più
illuminata,
ovvero
più
riflessiva
e
lungimirante,
dichiara
conclusa
l'esperienza
secondo
la
quale
si
deve
vivere,
cioè
si
può
vivere.
Il
suo
obiettivo
è
di
incamerare
il
raccolto
più
ricco
e
completo
possibile,
proveniente
dai
tempi
della
sperimentazione
e
delle
esperienze
negative.
Quindi
innanzi
tutto
va
evitata
la
continuazione
dell'esperimento,
il
perpetrarsi
dello
stato
fluido
dei
valori,
dello
studio,
dell'analisi,
della
scelta,
della
critica
in
infinitum
dei
valori.
Contro
tutto
ciò
viene
eretto
un
doppio
muro:
da
un
lato
la
rive-
lazione,
ossia
l'affermazione
che
la
ragione
di
quella
legge
non
è
di
origine
umana,
non
è
stata
cercata
e
trovata
lentamente,
dopo
molti
errori,
ma
che
essa,
in
quanto
di
origine
divina,
è
intera-
mente
e
assolutamente
senza
storia,
un
dono,
un
miracolo,
sem-
plicemente
riferita...
Dall'altro
la
tradizione,
cioè
l'assunto
che
la
legge
esiste
già
da
tempo
immemorabile
e
che
sarebbe
impietoso,
un
crimine
contro
gli
antenati
metterla
in
dubbio.
L'autorità
della
legge
si
fonda
su
queste
tesi:
Dio
l'ha
data,
gli
antenati
l'hanno
vissuta.
La
ragione
più
alta
di
questo
procedimento
risiede
nell'intento
di
allontanare
gradualmente
la
coscienza
dalla
vita,
riconosciuta
come
giusta
(cioè
dimostrata
attraverso
un'enorme
esperienza,
minuziosamente
vagliata):
così
da
ottenere
il
completo
automatismo
dell'istinto,
presupposto
di
ogni
genere
di
abilità,
di
ogni
forma
di
perfezione
nell'arte
di
vivere.
Redigere
un
codice
come
quello
di
Manu
significa
concedere
a
un
popolo
il



diritto
di
divenire
maestro,
di
divenire
perfetto,
di
ambire
alla
somma
arte
della
vita.
A
tale
fine
è
necessario
renderlo
incosciente:
questo
è
lo
scopo
di
ogni
sacra
menzogna.
L'ordine
per
caste,
la
legge
suprema
e
dominante,
è
solo
la
sanzione
di
un
ordine
naturale,
di
una
legge
naturale
primaria
sulla
quale
nessun
volere
arbitrario,
nessuna
«idea
moderna»
ha
potere
alcuno.
In
ogni
società
sana
si
distinguono
tre
tipi
di
gravitazione
in
senso
fisiologico,
che
si
condizionano
l'un
l'altro,
ognuno
con
la
sua
propria
igiene,
il
suo
proprio
àmbito
di
lavoro,
il
suo
proprio
sentimento
di
maestria
e
di
perfezione.
La
natura,
non
Manu,
separa
le
persone
di
natura
prevalentemente
spirituale
da
quelle
in
cui
domina
la
forza
muscolare
e
un
temperamento
forte
e
da
quelle
del
terzo
tipo,
che
non
si
distinguono

per
l'una

per
l'altra,
i
mediocri,
le
ultime
come
maggioranza,
le
prime
come
élite.
La
casta
superiore,
che
definisco
la
minoranza,
possiede,
essendo
la
più
perfetta,
anche
i
privilegi
della
minoranza:
tra
questi
vi
è
pure
quello
di
rappresentare
sulla
Terra
la
felicità,
la
bellezza
e
la
bontà.
Solo
agli
uomini
più
spirituali
sono
concesse
la
bellezza,
il
bello:
soltanto
nel
loro
caso
la
bontà
non
è
debolezza.
Pulchrum
est
paucorum
hominum:
il
bene
è
un
privilegio.
Nulla
è
loro
vietato
più
severamente
delle
cattive
maniere
o
di
uno
sguardo
pessimistico,
di
un
occhio
che
imbruttisca,
per
non
dire
dell'indignazione
sull'aspetto
generale
delle
cose.
L'indignazione
è
privilegio
dei
Ciandala,
come
pure
il
pessimismo.
«Il
mondo
è
perfetto
-così
s'esprime
l'istinto
dei
più
spirituali,
l'istinto
che
dice
di
sì,
-l'imperfezione,
tutto
ciò
che
è
al
di
sotto
di
noi,
la
distanza,
il
pathos
di
tale
distanza,
lo
stesso
Ciandala
fanno
parte
di
tale
perfezione».
Gli
uomini
più
spirituali,
essendo
i
più
forti,
trovano
la
loro
felicità
dove
gli
altri
troverebbero
la
loro
distruzione:
nel
labirinto,
nella
severità
verso

stessi
e
gli
altri,
nell'esperimento;
la
loro
gioia
sta
nel
dominio
di
sé:
tra
essi
l'ascetismo
diviene
natura,
bisogno,
istinto.
Il
compito
duro
è
per
essi
un
privilegio,
trastullarsi
con
i
pesi
che
schiacciano
gli
altri
uno
svago...
La
conoscenza:
una
forma
di
ascetismo.
Essi
rappresentano
la
razza
più
onorevole
di
uomini:
il
che
non
esclude
che
sia
la
più
allegra
e
la
più
amabile.
Comandano
non
perché
lo
vogliono,
ma
perché
è
nella
loro
essenza;
non
sono
liberi
di
essere
secondi.
I
secondi
sono
i
custodi
della
legge,
i
tutori
dell'ordine
e
della
sicurezza;
i
nobili
guerrieri;
soprattutto
il
re
in
quanto
formula
suprema
del
guer-
riero,
del
giudice
e
del
tutore
della
legge.
I
secondi
sono
gli
ese-
cutivi
dei
più
spirituali,
quello
che
è
a
essi
più
vicino,
che
fa
parte
di



loro,
che
li
libera
da
ogni
onerosità
nel
compito
di
governare;
il
loro
seguito,
il
loro
braccio
destro,
i
loro
migliori
discepoli.
In
tutto
ciò,
ripetiamolo
ancora,
non
v'è
alcunché
di
arbitrario,
nulla
di
«artificiale»;
ciò
che
è
diverso
è
artificiale;
in
questo
caso
si
è
violata
la
natura...
L'ordine,
l'ordine
gerarchico
delle
caste,
formula
soltanto
le
leggi
supreme
della
vita
stessa;
la
separazione
dei
tre
tipi
umani
è
necessaria
per
conservare
la
società,
per
rendere
possibili
i
tipi
superiori
e
supremi;
la
disuguaglianza
dei
diritti
è
la
condizione
prima
dell'esistenza
dei
diritti
stessi.
Un
diritto
è
un
privilegio.
Nel
suo
modo
di
essere
ognuno
ha
anche
il
suo
privi-
legio.
Non
sottovalutiamo
i
privilegi
dei
mediocri.
La
vita
diviene
sempre
più
dura
man
mano
che
si
eleva,
aumenta
il
freddo
e
aumentano
le
responsabilità.
Una
cultura
elevata
è
una
piramide:
può
erigersi
soltanto
su
una
base
larga,
essa
presuppone
come
condizione
primaria
una
parte
di
mezzo
sana
e
fortemente
con-
solidata.
L'artigianato,
il
commercio,
l'agricoltura,
la
scienza,
gran
parte
dell'arte:
in
una
parola
tutte
le
attività
professionali,
non
sono
assolutamente
compatibili
che
con
una
misura
media
nel
potere
e
nel
volere;
tali
cose
sarebbero
fuori
luogo
tra
coloro
che
rappresentano
l'elite,
l'istinto
che
appartiene
loro
si
oppone
tanto
all'aristocraticismo
quanto
all'anarchismo.
Per
essere
una
pubblica
utilità,
una
ruota,
una
funzione,
è
necessario
essere
predestinati
per
natura:
non
è
la
società,
ma
quella
sola
specie
di
felicità
di
cui
è
capace
la
grande
maggioranza,
a
rendere
questa
una
macchina
intelligente.
Per
la
mediocrità
la
felicità
consiste
nell'essere
mediocri:
l'abilità
in
una
sola
cosa,
la
specializzazione,
sono
un
istinto
naturale.
Sarebbe
totalmente
indegno
per
uno
spirito
profondo
vedere
un'obiezione
già
nella
stessa
mediocrità.
La
mediocrità
è
addirittura
il
primo
requisito
per
l'esistenza
delle
eccezioni:
una
cultura
elevata
trova
in
essa
la
sua
condizione.
Quando
l'uomo
eccezionale
tratta
i
mediocri
con
più
gentilezza
di
quanto
non
faccia
con
se
stesso
e
con
i
suoi
pari,
non
si
tratta
solo
di
gentilezza
del
cuore,
ma
semplicemente
di
un
suo
dovere...
Chi
odio
maggiormente
tra
la
plebaglia
dei
nostri
giorni?
La
gentaglia
socialista,
gli
apostoli
dei
Ciandala
che
nell'operaio
corrodono
l'istinto,
il
piacere,
il
sentimento
di
gratificazione
per
il
suo
piccolo
essere,
che
lo
rendono
invidioso,
che
gli
insegnano
la
vendetta...
L'ingiustizia
non
si
trova
mai
nella
disuguaglianza
dei
diritti,
ma
nella
pretesa
di
diritti
uguali...
Che
cosa
è
cattivo"?
In
verità
ho
già
risposto
a
questa
domanda:
tutto
ciò
che
è
figlio
della
debolezza,



dell'invidia,
della
vendetta.
L'anarchico
e
il
cristiano
hanno
un'origine
comune...


LVIII


In
effetti
fa
differenza
a
quale
scopo
si
mente:
se
lo
si
fa
per
con-
servare
oppure
per
distruggere.
Si
può
stabilire
una
perfetta
equa-
zione
tra
il
cristiano
e
l'anarchico:
i
loro
fini
e
i
loro
istinti
sono
rivolti
solo
alla
distruzione.
La
prova
di
tale
affermazione
si
può
ricavare
dalla
storia,
che
lo
dimostra
con
spaventosa
precisione.
Abbiamo
appena
considerato
una
legislazione
religiosa
che
ha
come
scopo
quello
di
«eternare»
una
grandiosa
organizzazione
sociale,
condizione
suprema
perché
la
vita
prosperi.
Il
cristianesimo
invece
ha
trovato
la
propria
missione
nell'annientamento
di
un'organizzazione
siffatta,
giacché
in
essa
la
vita
prosperava.
In
quel
sistema,
il
risultato
della
ragione,
di
lunghi
periodi
di
sperimen-
tazione
e
incertezza,
doveva
essere
seminato
a
vantaggio
del
più
lontano
futuro
e
si
doveva
portare
a
casa
il
raccolto
più
abbon-
dante,
ricco
e
completo
possibile:
invece
venne
avvelenato
durante
la
notte...
Ciò
che
esisteva
aere
perennius,
l'imperium
romanum,
la
forma
più
grandiosa
d'organizzazione
raggiunta
in
condizioni
avverse
fino
a
quel
momento,
di
fronte
alla
quale
tutto
ciò
che
è
venuto
prima
e
tutto
ciò
che
è
venuto
dopo
è
stato
solo
imper-
fetto,
grossolano,
dilettantismo;
questi
santi
anarchici
hanno
preso
per
«atto
pio»
il
distruggere
«il
mondo»,
vale
a
dire
l'impe-
rium
romanum,
finché
non
rimase
eretta
una
sola
pietra,
finché
anche
i
germani
e
altri
bruti
non
poterono
divenire
i
padroni
di
esso...
Il
cristiano
e
l'anarchico:
ambedue
décadents,
ambedue
incapaci
di
operare
in
altro
modo
che
non
sia
dissolvente,
vele-
noso,
debilitante,
come
sanguisuga;
ambedue
istinto
di
odio
mor-
tale
verso
tutto
ciò
che
esiste,
che
è
grande,
che
ha
durata,
tutto
ciò
che
promette
futuro
alla
vita...
Il
cristianesimo
è
stato
il
vam-
piro
dell'
imperium
romanum,
l'enorme
impresa
dei
romani
di
pre-
parare
il
terreno
per
una
grande
cultura
che
aveva
un
futuro
venne
disfatta
in
una
sola
notte
dal
cristianesimo.
Non
si
è
ancora
capito?
L'imperium
romanum
che
conosciamo,
che
la
storia
della
provincia



di
Roma
ci
insegna
a
conoscere
sempre
meglio,
questa
che
fu
la
più
ammirevole
tra
tutte
le
opere
d'arte
in
grande
stile,
costituiva
un
inizio:
la
sua
struttura
era
programmata
per
misurarsi
con
i
millenni.
Fino
a
oggi
non
si
è
mai
costruito
in
questa
maniera,
non
si
è
neppure
sognato
di
costruire
in
tal
modo
sub
specie
aeterni!
Questa
organizzazione
era
salda
abbastanza
da
sopportare
i
cattivi
imperatori:
l'accidentalità
delle
persone
non
deve
influenzare
simili
imprese:
primo
principio
di
ogni
grande
architettura.
Eppure
non
fu
sufficientemente
forte
contro
la
forma
più
corrotta
di
tutte
le
corruzioni:
contro
il
cristiano...
Questi
furtivi
parassiti
che,
nel
cuore
della
notte,
nella
nebbia
e
nell'ambiguità
strisciavano
accanto
a
ogni
individuo
e
ne
risucchiavano
il
senso
di
serietà
responsabile
verso
le
cose
vere,
l'istinto
per
le
realtà;
questa
vile
marmaglia,
effeminata
e
lusingatrice,
gradualmente
ha
alienato
le
«anime»
da
questo
enorme
edificio,
quelle
nature
preziose,
virilmente
nobili
che
consideravano
la
causa
di
Roma
la
propria
causa,
la
propria
dignità,
il
proprio
orgoglio.
Quello
strisciare
dei
bigotti,
quella
segretezza
da
conventicola,
quei
tetri
concetti
come
l'inferno,
il
sacrificio
degli
innocenti,
l’unio
mystca
nel
bere
il
sangue
e
soprattutto
il
fuoco
della
vendetta
lentamente
ravvivato,
della
vendetta
dei
Cianciala,
questo
fece
padrona
di
Roma
la
stessa
specie
di
religione
già
combattuta
nella
sua
forma
precedente
da
Epicuro.
Bisogna
leggere
Lucrezio
per
capire
a
che
cosa
fece
guerra
Epicuro:
non
al
paganesimo,
ma
al
«cristianesimo»,
intendo
dire
alla
corruzione
dell'anima
per
mezzo
dei
concetti
di
peccato,
penitenza
e
immortalità.
Osteggiò
i
culti
sotterranei,
l'intero
cristianesimo
latente;
già
in
quel
tempo
negare
l'immortalità
era
una
vera
redenzione.
Ed
Epicuro
avrebbe
vinto:
ogni
spirito
rispettabile
dell'impero
romano
era
epicureo:
a
quel
punto
apparve
Paolo...
Paolo,
l'odio
dei
dandola
contro
Roma,
contro
«il
mondo»,
l'odio
diventato
carne,
genio,
l'ebreo,
l'ebreo
eterno
par
excellence...
Ciò
che
egli
intuì
fu
il
modo
di
accendere
un
«incendio
universale»
con
l'aiuto
del
piccolo
movimento
settario
dei
cristiani
al
di
fuori
del
giudaismo,
e
come,
con
il
simbolo
di
«Dio
sulla
croce»,
poter
raccogliere
sotto
un
potere
enorme
tutto
ciò
che
veniva
calpestato,
nascosto,
che
era
ribelle,
l'intera
eredità
degli
intrighi
anarchici
dell'impero.
«La
salvezza
viene
dagli
ebrei».
Il
cristianesimo
come
formula
per
superare
tutti
i
culti
sotterranei,
per
esempio
quello
di
Osiride,
della
grande
Madre
o
di
Mitra,
e
per
riassumerli:
il
genio
di
Paolo
consiste
in
questa
intuizione.
Il
suo
istinto
in
merito
era
talmente
sicuro
che,
con
una
spietata
violenza
sulla
verità,
pose
le



idee,
con
le
quali
quelle
religioni
dei
Cianciala
esercitavano
il
loro
fascino,
in
bocca
al
«Salvatore»
da
lui
inventato
(e
non
solo
in
bocca),
cosicché
fece
di
lui
qualcosa
che
persino
un
sacerdote
di
Mitra
poteva
comprendere...
Questa
fu
la
sua
visione
sulla
via
di
Damasco:
comprese
che
per
disprezzare
«il
mondo»
aveva
bisogno
della
fede
nell'immortalità,
che
il
concetto
di
«inferno»
avrebbe
assoggettato
anche
Roma,
che
con
l'«aldilà»
si
uccide
la
vita...
Nichilista
e
cristiano:
fanno
rima,
e
non
soltanto...


LIX


L'intera
impresa
del
mondo
antico
per
nulla:
non
ho
parole
per
esprimere
il
mio
sentimento
davanti
a
una
cosa
tanto
terribile.
E
se
si
considera
che
tutto
il
lavoro
era
stato
soltanto
preparatorio,
che,
con
granitica
coscienza
di
sé,
erano
state
appena
gettate
le
basi
per
un'impresa
di
millenni!
Tutto
il
significato
del
mondo
antico
fu
vano!...
A
che
scopo
erano
esistiti
i
greci?
A
che
i
romani?
Tutte
le
condizioni
prime
per
una
cultura
erudita,
tutti
i
metodi
scientifici
erano
già
là:
si
era
già
affermata
la
grande,
incom-
parabile
arte
del
leggere
bene,
condizione
indispensabile
per
la
tradizione
culturale,
per
l'unità
delle
scienze;
le
scienze
della
natura,
insieme
alla
matematica
e
alla
meccanica,
erano
sulla
buona
strada:
il
senso
dei
fatti,
l'ultimo
e
il
più
prezioso
di
tutti,
aveva
le
sue
scuole
e
una
tradizione
ormai
secolare!
Si
capisce
ciò?
Tutto
l'essenziale
per
mettersi
all'opera
era
stato
scoperto;
i
metodi,
è
bene
ripeterlo
una
decina
di
volte,
sono
la
cosa
fonda-
mentale,
anche
la
più
difficile,
ciò
che
è
stato
osteggiato
tanto
a
lungo
da
abitudini
e
pigrizia.
Ciò
che
oggi
abbiamo
riconquistato
per
noi
stessi
con
un
indicibile
autodominio;
poiché
tutti
ancora,
in
qualche
modo,
abbiamo
in
noi
i
cattivi
istinti,
quelli
cristiani;
la
libera
visione
della
realtà,
la
mano
cauta,
la
pazienza
e
la
serietà
nelle
cose
più
piccole,
tutta
la
rettitudine
della
conoscenza;
tutto
ciò
esisteva
già
più
di
duemila
anni
fa!
E
ancora
di
più
il
tatto
e
il
gusto
fine
e
delicato!
Non
come
un
addestramento
del
cervello!
Non
come
l'educazione
«tedesca»
con
modi
da
villani!
Ma
come
corpo,
come
gesto,
come
istinto:
in
una
parola,
come
realtà...



Tutto
questo
per
nulla!
In
una
notte
solo
un
ricordo!
Greci!
Romani!
La
nobiltà
degli
istinti,
il
gusto,
l'indagine
metodica,
il
genio
dell'organizzazione
e
del
governo,
la
fede,
la
volontà
di
un
futuro
per
l'umanità,
il
grande

a
tutte
le
cose,
visibile
come
imperium
romanum,
visibile
con
tutti
i
sensi,
il
grande
stile
diventato
non
più
solo
arte
ma
anche
realtà,
verità,
vita...
E
non
distrutto
in
una
notte
da
un
evento
naturale!
Non
calpestato
dai
germani
e
da
altri
bifolchi!
Ma
condotto
alla
rovina
da
anemici
vampiri
astuti,
occulti
e
invisibili!
Non
conquistato,
ma
solo
dissanguato!...
La
sete
di
vendetta
occulta
e
l'invidia
meschina
diventate
padrone!
Tutto
ciò
che
è
deplorevole,
che
soffre
di
sé,
che
è
colpito
da
sentimenti
cattivi,
l'intero
mondo-ghetto
dell'anima
improvvisamente
in
alto!
Basta
leggere
un
qualsiasi
sobillatore
cri-
stiano,
sant'Agostino
per
esempio,
per
capire,
per
subodorare
quali
sordidi
personaggi
fossero
emersi.
Sarebbe
un
grosso
errore
pre-
supporre
nei
capi
del
movimento
cristiano
mancanza
di
intelli-
genza.
Sono
astuti,
astuti
fino
alla
santità,
questi
padri
della
Chiesa!
Ciò
che
manca
loro
è
un'altra
cosa
assai
differente.
La
natura
li
ha
trascurati,
ha
dimenticato
di
fornirli
di
un
modesto
numero
di
istinti
onesti,
rispettabili
e
puliti...
Detto
tra
noi:
non
sono
neppure
uomini...
Se
l'Islam
disprezza
il
cristianesimo
ha
mille
volte
il
diritto
di
farlo:
l'Islam
ha,
come
presupposto,
degli
uomini…


LX


II
cristianesimo
ci
derubò
del
raccolto
della
cultura
antica,
poi
ha
seguitato
a
derubarci
sottraendoci
il
raccolto
della
cultura
islamica.
Il
meraviglioso
mondo
culturale
moro
di
Spagna,
a
noi
in
fondo
più
affine
(dal
momento
che
si
rivolge
ai
nostri
sensi
e
al
nostro
gusto
più
di
quanto
non
facciano
Grecia
e
Roma),
venne
calpestato
(e
non
dico
da
quali
piedi)
:
perché?
Perché
era
nobile,
perché
doveva
le
sue
origini
a
istinti
virili,
perché
diceva

alla
vita
anche
con
rari
e
squisiti
tesori
della
vita
moresca!...
Più
tardi
i
crociati
combatterono
contro
ciò
davanti
a
cui
avrebbero
fatto
meglio
a
prostrarsi
nella
polvere:
una
cultura
in
confronto
alla
quale
persino



il
nostro
XIX
secolo
potrebbe
apparire
assai
povero
e
«arretrato».
Miravano
al
bottino,
è
naturale:
l'Oriente
era
ricco...
Ma
siamo
onesti!
Le
crociate?
Alta
pirateria,
nient'altro!
La
nobiltà
tedesca,
in
fondo
nobiltà
vichinga,
si
trovava
in
questo
nel
proprio
elemento:
la
Chiesa
sapeva
fin
troppo
bene
come
avere
in
pugno
l'aristocrazia
tedesca...
La
nobiltà
tedesca,
sempre
gli
«svizzeri»
della
Chiesa,
sempre
al
servizio
di
tutti
i
cattivi
istinti
della
Chiesa,
ma
ben
pagata...
È
stato
proprio
con
l'aiuto
della
spada
tedesca,
del
sangue
e
del
coraggio
dei
tedeschi,
che
la
Chiesa
ha
condotto
la
propria
guerra
a
morte
contro
tutto
ciò
che
di
più
nobile
vi
è
sulla
Terra!
A
questo
punto
sorgono
molte
dolorose
domande.
L'aristocrazia
tedesca
è
quasi
assente
nella
storia
della
cultura
più
elevata:
si
può
immaginarne
la
ragione...
Il
cristianesimo,
l'alcool:
i
due
grandi
strumenti
di
corruzione...
In

non
doveva
esserci
scelta
tra
l'Islam
e
il
cristianesimo,
così
come
tra
un
arabo
e
un
ebreo.
La
decisione
è
già
data:
nessuno
è
più
libero
di
scegliere.
O
si
è
Cianciala
o
non
lo
si
è...
«Guerra
all'ultimo
sangue
contro
Roma!
Pace
e
amicizia
con
l'Islam»:
così
pensava
e
fece
il
grande
spirito
libero,
il
più
geniale
degli
imperatori
tedeschi,
Federico
II.
Come?
Bisogna
che
un
tedesco
sia
un
genio,
uno
spirito
libero,
perché
provi
sentimenti
rispettabili?
Mi
sfugge
come
un
tedesco
abbia
mai
potuto
avere
sentimenti
cristiani...


LXI


Qui
è
necessario
accennare
a
un
ricordo
cento
volte
più
doloroso
per
i
tedeschi.
I
tedeschi
hanno
impedito
all'Europa
di
raccogliere
l'ultima
grande
messe
culturale
che
essa
abbia
mai
raccolto:
quella
del
Rinascimento.
Si
capisce,
c'è
almeno
il
desiderio
di
comprendere
che
cosa
fu
il
Rinascimento?
La
trasvalutazione
dei
valori
cristiani,
il
tentativo,
intrapreso
con
tutti
i
mezzi,
con
tutù
gli
istinti,
con
tutto
il
genio,
di
condurre
alla
vittoria
i
valori
opposti,
i
valori
nobili...
Finora
questa
è
stata
l'unica
grande
guerra,
fino
a
oggi
è
mancato
un
modo
più
decisivo
di
porre
le
questioni
rispetto
a
quello
del
Rinascimento.
Il
problema
che
esso
pone
è
lo
stesso
che
pongo
io:
non
si
ebbe
mai
forma
di
attacco
più
radicale,
più
diretta,
più



rigorosa
su
tutto
il
fronte
contro
il
centro!
Attaccare
nel
punto
cruciale,
nella
stessa
sede
del
cristianesimo,
per
porre
i
valori
nobili
sul
trono,
ovvero
parli
negli
istinti,
nei
desideri
e
nei
bisogni
più
infimi
di
coloro
che
appunto
vi
erano
assisi...
Scorgo
una
possibilità
di
magia
e
di
fascino
di
colori
ultraterreni;
mi
pare
che
risplenda
con
un
tremito
di
raffinata
bellezza,
che
in
essa
si
sveli
un'arte
così
divina,
così
diabolicamente
divina,
che
è
vano
cercare
nel
corso
dei
millenni
una
simile
possibilità:
contemplo
uno
spettacolo
nel
medesimo
tempo
tanto
pieno
di
significato
e
così
meravigliosamente
paradossale
che
tutti
gli
dèi
dell'Olimpo
avrebbero
avuto
ragione
di
scoppiare
in
una
risata,
Cesare
Borgia
papa...
Ho
reso
l'idea?...
Benissimo,
questa
sarebbe
proprio
stata
la
vittoria
che
solo
oggi
io
auspico:
con
ciò
il
cristianesimo
sarebbe
stato
abolito.
Invece
che
accadde?
Un
monaco
tedesco,
Lutero,
giunse
a
Roma.
Questo
monaco,
con
tutti
gli
istinti
vendicativi
di
un
sacerdote
malriuscito,
a
Roma
si
ribellò
contro
il
Rinascimento...
Invece
di
cogliere
con
profonda
gratitudine
l'evento
grandioso
che
si
stava
verificando,
il
Cristianesimo
vinto
nella
sua
stessa
sede,
da
tale
spettacolo
attinse
solo
nutrimento
per
il
suo
odio.
L'uomo
religioso
non
pensa
che
a
se
stesso.
Lutero
vide
la
corruzione
del
papato,
mentre
era
chiaro
proprio
l'opposto:
l'antica
corruzione,
il
peccatum
originale,
cioè
il
cristianesimo,
non
sedeva
più
sul
trono
papale!
Al
suo
posto
vi
era
la
vita!
Il
trionfo
della
vita!
Il
grande

a
tutte
le
cose
elevate,
belle
e
fiere!...
Così
Lutero
ristabilì
la
Chiesa:
l'attaccò...
Il
Rinascimento
divenne
un
evento
privo
di
significato,
una
grande
inanità!
Ah
questi
tedeschi,
quanto
ci
sono
costati!
Inutilità,
questa
è
sempre
stata
l'opera
dei
tedeschi!
La
Riforma,
Leibniz,
Kant
e
la
cosiddetta
filosofia
tedesca;
le
guerre
di
«liberazione»;
l'impero,
ogni
volta
un'inutilità
in
sostituzione
di
qualcosa
che
già
esisteva,
di
qualcosa
d'irreparabile...
Lo
ammetto,
questi
tedeschi
sono
i
miei
nemici.
In
loro
disprezzo
ogni
sorta
di
sudiciume
di
concetti
e
di
valori,
di
vigliaccheria
di
fronte
a
ogni

e
no.
Per
quasi
un
millennio
hanno
distorto
e
aggrovigliato
tutto
ciò
su
cui
hanno
messo
le
mani,
hanno
sulla
coscienza
tutte
le
cose
fatte
a
metà
(riuscite
per
tre
ottavi!),
di
cui
l'Europa
è
afflitta.
Hanno
sulla
coscienza
pure
la
forma
di
cristianesimo
più
disonesta,
più
inconfutabile
che
esista:
il
protestantesimo...
Se
non
ci
sbarazzeremo
mai
del
cristianesimo,
sarà
colpa
dei
tedeschi...



LXII


Con
ciò
arrivo
alla
conclusione
e
pronuncio
il
mio
giudizio.
Condanno
il
cristianesimo,
sollevo
contro
la
Chiesa
cristiana
l'accusa
più
terribile
che
abbia
mai
levato
un
accusatore.
A
mio
parere
essa,
la
più
grande
corruzione
che
si
possa
immaginare,
ha
avuto
la
volontà
dell'ultima
corruzione
possibile.
La
Chiesa
cristiana
non
ha
lasciato
nulla
di
intatto
nella
sua
corruzione,
ha
reso
ogni
valore
un
disvalore,
ogni
verità
una
menzogna,
ogni
integrità
una
bassezza
d'animo.
E
si
osi
ancora
parlarmi
dei
suoi
benefici
«umanitari»!
Abolire
una
condizione
di
miseria
era
contrario
al
suo
più
profondo
vantaggio:
ha
vissuto
sulla
miseria,
ha
creato
miserie
per
fare
eterna
se
stessa...
Per
esempio
il
germe
del
peccato:
fu
soltanto
la
Chiesa
ad
arricchire
l'umanità
di
tale
misera
condizione!
L'
«uguaglianza
delle
anime
davanti
a
Dio»:
questa
falsità,
questo
pretesto
di
rancunes
delle
persone
abiette,
questo
concetto
esplosivo
che
infine
divenne
rivoluzione,
idea
moderna
e
principio
del
declino
dell'intero
ordine
sociale,
è
dinamite
cristiana...
Benefici
«umanitari»
del
cristianesimo!
Coltivare
dalla
humanitas
una
contraddizione
di

stessi,
un'arte
di
autolesionismo,
una
volontà
di
mentire
a
qualsiasi
costo,
un'avversione
e
un
disprezzo
per
ogni
istinto
buono
e
onesto!
Eccoli
i
benefici
del
cristianesimo!
Il
parassitismo
come
unica
prassi
della
Chiesa;
con
il
suo
ideale
di
anemia,
di
«santità»
che
succhia
tutto
il
sangue,
l'amore
e
la
speranza
di
vita;
l'aldilà
come
volontà
di
negare
ogni
realtà:
la
croce
come
distintivo
di
riconoscimento
per
la
cospirazione
più
lugubre
che
sia
mai
esistita,
una
cospirazione
contro
il
benessere,
la
bellezza,
la
buona
costruzione,
il
valore,
lo
spirito,
la
bontà
d'animo,
contro
la
vita
stessa...
Voglio
scrivere
su
tutti
i
muri
questa
eterna
accusa
al
cristianesimo,
dovunque
ve
ne
siano.
Posseggo
dei
caratteri
visibili
persino
ai
ciechi...Proclamo
il
cristianesimo
l'unica
grande
maledizione,
l'unica
grande
depravazione
interiore,
l'unico
grande
istinto
di
vendetta,
per
il
quale
nessun
espediente
è
abbastanza
velenoso,
lugubre,
sotterraneo
e
meschino;
lo
dichiaro
l'unica
macchia
immortale
del
genere
umano...


Calcoliamo
il
tempo
da
quel
dies
nefastus
con
cui
iniziò
questa
fatalità,
a
partire
dal
primo
giorno
del
cristianesimo!
E
perché
non
calcolarlo
piuttosto
dal
suo
ultimo
giorno?
Da
oggi?
Trasvalutazione
di
tutti
i
valori!